Femminilità al lavoro

di Lea Melandri


La “potenza dell’amore” e la “coercizione al lavoro”, dopo essersi fatte a lungo la guerra, sembrano oggi destinate a un ideale ricongiungimento, per effetto della rivoluzione che sta attraversando l’economia e per l’opportunità che essa potrebbe offrire alle donne di far riconoscere il valore del talento femminile, a lungo ignorato. “Professionalità sensuale”, “intelligenza emotiva”, “pensiero emozionale”, sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore –armonia di nature opposte e complementari-, quando si trasferisce dalla relazione di coppia all’ambito lavorativo. Il mito dell’interezza, che accompagna da sempre la cultura maschile, come nostalgica immaginaria riparazione a tutti i dualismi che ha prodotto, a partire dal diverso destino riservato a uomini e donne, viene oggi reclamato da versanti apparentemente opposti: da un lato, la centralità che stanno prendendo nel sistema produttivo le relazioni e i servizi alla persona, e di conseguenza il corpo, la dimensione affettiva e sessuale; dall’altro, l’affermarsi di un “desiderio” femminile che rifiuta l’alternativa tra la cura dei figli, della casa, e la volontà di “stare nel mondo”, che pensa di poter fare dell’esperienza della quotidianità “una leva per cambiare il mercato del lavoro”. ( Il doppio sì, Quaderni di via Dogana, 2008 )

Il venir meno dei confini tra la casa e la pòlis sembra aver aperto il campo a una ambigua “femminilizzazione” dello spazio pubblico, e a una non meno ambigua mercantilizzazione della vita intima. Se la precarizzazione, la perdita di diritti e garanzie certe, la pluralità imprevedibile delle occupazioni, fanno apparire il tempo di lavoro sempre più pervasivo e soffocante, e il capitalismo globale “un vampiro” (Braidotti), l’ingresso delle donne in ruoli manageriali di grandi aziende, accende, al contrario, la speranza di poter ridefinire, con un segno proprio, poteri e regole organizzative della produzione, tradizionalmente riservati agli uomini. Una volta cadute le barriere che hanno tenuto le donne, e tutto ciò che dell’umano è stato identificato col loro destino, confinati in una sorta di natura immobile, ignorata per quanto essenziale alla conservazione della specie, era inevitabile che la “differenza femminile” si mostrasse in tutta la sua contraddittorietà: potenza materna e risorsa sessuale assoggettate e poste al servizio dell’uomo, manodopera di riserva subordinata alle necessità del ciclo produttivo, libertà e creatività esaltate nell’immaginario e storicamente insignificanti. La riflessione sulle esperienze lavorative di donne di età e collocazione sociale diversa hanno oscillato, non a caso, tra marcare il “vantaggio”, il “di più” di competenza che verrebbe oggi al femminile dalla nuova economia, e ammettere invece la deriva verso forme di autosfruttamento, estese alla vita intera e tali da configurare un “contesto prostituzionale allargato”. L’Eros, che insieme alle donne e alle attitudini un tempo nascoste nel privato, si fa strada dentro le rigide, impersonali impalcature delle organizzazione del lavoro, conserva il suo volto duplice trasferendosi, contemporaneamente, in “lavori marchetta” e in materia emozionale, creativa, per forme inedite, armoniose, di un potere non più separato dalla vita. Se c’è chi cerca di svincolarsi dal coinvolgimento eccessivo, scegliendo lavori che non offrono “possibilità di grande soddisfazione”, e tanto meno conferme identitarie, altre fanno dell’azienda il luogo tanto atteso della “costruzione di sé”, di una affermazione di esistenza, prima ancora che di riuscita professionale.

“Si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa corporeità, ammiccante e sorridente. E’ possibile che si vada creando un contesto prostituzionale allargato, legato al fatto che, quando l’attività relazionale tende a prendere il sopravvento, il soggetto debba anche lasciare agire, usare, sfruttare le capacità del corpo e la mimica della profferta sessuale (…) Nei lavori atipici la componente personale e relazionale ha un peso sempre più importante, sia nel contesto del lavoro che nella relazione contrattuale col padrone. Debbo imparare a vendermi bene, a rendermi appetibile. Non conosco i miei diritti, non saprei con chi discuterne nel mio posto di lavoro” ( Posse. Divenire-donna della politica, Manifestolibri 2004)

“ C’è una sorta di rumore bianco che accompagna una donna in azienda, qualunque sia il ruolo da lei ricoperto, e richiede una certa attenzione: la donna è prima di tutto un corpo, c’è sempre una  riconduzione alla fisicità, al suo essere nel ruolo di donna prima che in qualunque altro ruolo prima di essere lì come manager (…) Ogni donna sa che quando entra in una riunione o parla ad una platea, è in primo luogo giudicata per come è vestita, pettinata eccetera (…) Si può dire che anche nel clima aziendale è penetrato il modello ‘velina’ e simili (…) L’esibizione della seduttività non è
apprezzata solo su un piano personale, ma è una specie di requisito non ufficiale, ma certo preso in considerazione”. (Luisa Pogliana, Donne senza guscio, Guerini e Associati, 2008)

La discussione che riguarda le donne e il lavoro, da qualunque parte venga fatta, non riesce a sottrarsi al binomio uguaglianza/differenza, che ha contagiato anche parte del femminismo, nonostante si sia affermata da tempo la consapevolezza che si tratta di un falso dilemma imposto dal potere maschile. Se è stato facile, per la generazione degli anni ’70, prendere distanza da un’idea di emancipazione che andava a confondersi con modelli virili, più tortuoso e tuttora incerto si è dimostrato il processo di liberazione che avrebbe dovuto criticare ogni forma di dualismo, di complementarietà, di riunificazione degli opposti. Colpisce il fatto che siano proprio le donne, nel momento in cui si sfrangiano e si eclissano le identità e le appartenenze di ogni tipo, a impugnare, come rivalsa o affermazione di autorevolezza, una ‘natura’ o un ‘genere’ femminile usati dalla civiltà dell’uomo per tenere le donne in uno stato di minorità sociale, giuridica e politica. Ma forse sta proprio in questa “incongruenza” uno dei nodi irrisolti della questione dei sessi. Di incongruenze e contraddizioni sono piene, non a caso, le analisi che più esplicitamente si sono poste l’obiettivo della “valorizzazione delle differenze di genere”.
“Pensiamo a certe richieste di piccoli lavori di servizio –scrive Pogliana- che a un uomo, in certe posizioni, non verrebbero mai fatte. In queste prassi troviamo spesso il tentativo di ricondurre la donna al suo essere donna, sminuendo  il suo essere una professionista al lavoro. Soprattutto mettere  appena possibile la donna in un ruolo ancillare. Come a ricordare che, qualunque sia la posizione acquisita, agli uomini spettano i ruoli strategici, di pensiero, alle donne quelli esecutivi, organizzativi. Oppure (che novità) riconducendo la donna ai suoi ruoli privati: essere madre, o essere interessante per l’aspetto fisico (…) Stabilire buone relazioni, curarsi delle persone, è anche un modo di rispondere a un bisogno non sempre esplicitato: mettersi al riparo dal conflitto. E’ uno dei problemi che le donne vivono nelle relazioni di lavoro, o forse in tutte le relazioni: incapacità di gestire situazioni conflittuali senza soffrirne troppo, senza sentirsi messe in discussione, private di un riconoscimento.”

“Anche nei Paesi nordici il tempo parziale e la flessibilità degli orari sono richiesti soprattutto da donne. Questo accade perché ci trasciniamo dietro rimasugli della vecchia divisione del lavoro tra i sessi? Oppure perché a molte quel lavoro piace? Oppure perché nella convivenza il conflitto tra i sessi è poco gestibile e la legge non aiuta?” (Doppio sì).

La conciliazione di amore, cure materne e lavoro, la ricerca dell’interezza della persona, nonostante le evidenti ricadute “ancillari”, sia nel privato che nel pubblico, continua a essere perseguita dalle donne stesse, incuranti delle fatiche e delusioni a cui vanno incontro. L’accanimento a volere che sia riconosciuta l’”autorevolezza” femminile anche in ambito produttivo, è pari alla messa in ombra del potere ancora saldamente in mano maschile e degli interessi economici dominanti. Ma è solo il bisogno di essere amate, l’attesa di una contropartita affettiva, a tenere le donne ancorate al sogno di una “armoniosa famiglia integrata”? Nel capovolgimento delle parti, non è forse una femminile onnipotenza  -accedere al potere pubblico senza rinunciare a quello privato, seduttivo e materno- che inconsciamente le donne desiderano e gli uomini temono?

L’interrogativo si potrebbe formulare anche in un altro modo. Se oggi è il sistema produttivo, la nuova economia, ad aver bisogno del “valore D”, come vanno ripetendo da tempo i giornali della Confindustria, perché le donne in carriera notano tanta resistenza dei loro “capi” a riconoscere l’apporto creativo a un migliore funzionamento dell’azienda che esse possono dare? Perché prevale la tendenza a “usare” la loro dedizione materna, la “sovrabbondanza” del loro impegno lavorativo, come avviene per quel ‘dono d’amore’ che è, nella famiglia, il lavoro di cura? E’ come se ci fosse, dentro l’economia capitalista, un residuo patriarcale che ne frena lo sviluppo: i dirigenti, coloro che hanno il potere di decidere avanzamenti di carriera, definire i criteri di valutazione, sono innanzi tutto uomini, che non hanno alcun interesse  a lasciarsi crescere al fianco, nei luoghi storici della loro autonomia, una potenza femminile più libera e più forte di quella conosciuta nel privato.

 

Questo articolo è uscito sul settimanale Gli altri del 15 gennaio 2010

 

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