20 ottobre: tante diversità insieme e una differenza
di Lea Melandri

 

 

La sinistra, si legge nel nuovo appello che invita alla manifestazione del 20 ottobre a Roma (“Liberazione 9.9.07), è fatta di “tante anime”, “diverse ma amiche”, che hanno bisogno di raccogliersi “in un sol corpo” per avviare un progetto di società più giusta, meno frammentaria e meno soggetta alla “legge feroce del mercato”.
Ciò che non si dice, ma che emerge chiaramente ogni volta che si elencano i problemi “fondamentali” su cui è chiamata a esprimersi una partecipata “assemblea di popolo”, è che, se queste anime sono tutte “grandi”, alcune sono considerate più grandi delle altre e come tali destinate a fare da “bussola” a un gregge altrimenti smarrito.

Cambiano le analisi della fase storica che si sta attraversando  -dal moderno al postmoderno, alla “società fluida”-, ma non il paradigma conseguente al primato dell’economia, che cerca ogni volta un soggetto prioritario, spinto al cambiamento da oggettive, disumane condizioni di lavoro, una sorta di ‘asso pigliatutto’ che trova oggi, dopo il declino della classe operaia, la sua perfetta incarnazione nel modello precario, tessuto connettivo della civiltà funzionale al liberismo economico e, al medesimo tempo, virus della sua disgregazione.
Intorno alla precarietà si muovono le acque agitate del governo, dei partiti e del sindacato, ma anche quel poco che sopravvive di un discorso teorico sempre più spento e ripetitivo, incapace di fermare lo sguardo sul magma confuso e contraddittorio di sentimenti che rischiano di far esplodere in modo incontrollato le relazioni sociali.

La “diversità” è sicuramente uno degli aspetti più vistosi e più interessanti della sinistra che dice di voler ripensarsi e di poter trovare, sulla base di un alternativa condivisa di società, nuove forme unificanti di aggregazione. Ma per arrivare a definire la diversità un “valore” –saperi, pratiche, cambiamenti in grado di tentare scambi e contaminazioni-, è necessario innanzi tutto chiedersi quale origine hanno le “differenze” che conosciamo, in che rapporto stanno tra loro, quali tratti comuni tengono nascosti, di quali violenze, ingiustizie sono state storicamente portatrici. L’orizzontalità, su cui si vorrebbe oggi misurare la forza modificatrice dell’esistente, da parte del “popolo” della sinistra, è smentita dalla sacra, intoccabile gerarchia con cui vengono elencati ogni volta valori e soggettività interessate; la promessa di riunificazione si affianca paradossalmente al bisogno di rafforzare tratti identitari e appartenenze. L’idea di un corteo che si muove come “un sol corpo”, pur avendo tante anime, evoca nostalgie comunitarie tutt’altro che estranee alla storia della sinistra, fa appello a una omogeneità immaginaria, messa, sia pure inconsapevolmente, a copertura di conflitti, lacerazioni, incapacità di ascolto reciproco.

Sulla lettura distorta e sull’uso tutto interno a partiti e maggioranza di governo, che sono stati fatti dell’appello uscito il 3 agosto su Liberazione e Il Manifesto, hanno già detto altri firmatari.
Se finora ho taciuto, per avendo dato il mio nome, è perché dubbi, rabbia, delusione non riguardano, nel mio caso, solo le scelte fatte finora dal governo su lavoro, politiche sociali, guerra, diritti civili, né solo l’appropriazione da parte del ceto politico di una iniziativa nata come espressione di soggetti collettivi, movimenti, associazioni, gruppi, che riduttivamente continuano a essere definiti  “società civile”, quando si sa bene che sono portatori di saperi  e pratiche innovative dell’idea tradizionale di politica.
Neppure posso limitarmi, come Aurelio Mancuso, a fare “atto di fiducia” contando che la sinistra che sta la governo si decida a riconoscere alla libertà e ai diritti delle persone in quanto tali lo stesso peso che dà ai diritti sociali. E la ragione è molto semplice: il patriarcato, come dominio storico di un sesso sull’altro, non è una questione riducibile a diritti, libertà, emancipazione, responsabilità etica, e nemmeno solidarietà, una parola che compare impropriamente in entrambi gli appelli: nel primo, come solidarietà tra lavoratori e lavoratrici, di cui sarebbe garanzia il contratto nazionale, nel secondo come “struttura” della “convivenza civile tra le donne e gli uomini”. Si può essere solidali con chi vive una condizione di disagio maggiore della nostra, ma se siamo noi o i nostri simili la causa di quel disagio, se a dividerci è stata una “differenza” diventata storicamente potere, sfruttamento, violenza, esclusione, ci vogliono ben altro impegno, ben altra assunzione di responsabilità, pensiero critico, desiderio profondo di cambiamento, rivalutazione del conflitto, per allacciare nuovi rapporti.

Non è un caso che il tentativo di Emiliano Brancaccio di riformulare il rapporto tra i sessi dall’interno della critica marxista, come legame tra “riproduzione del profitto e generazione dell’eros”, tra “contraddizioni sociali e contraddizioni famigliari”, tra economia politica e psicanalisi (Liberazione 22/23 luglio 07), sia rimasto isolato e senza seguito. Tradotta in termini, ora di “questione di genere”, ora di “patriarcato”, ora di “femminismo”, la relazione tra uomini e donne aleggia tuttora sulla manifestazione del 20 ottobre come l’anima incollocabile della sinistra, un fantasma che si aggira in ogni suo ambito, che interroga tutte le sue “diversità”  -il lavoro, le politiche sociali, il pacifismo, l’ambientalismo, i diritti civili-, ma che come l’Araba fenice “dove sia nessun lo sa”.

Eppure ci sono luoghi dove, lentamente ma con passione costante, si va formando quello spazio pubblico, contaminazione di percorsi diversi, che la sinistra dice di voler porre al suo orizzonte. La settimana organizzata come ogni anno dal Forumdonne di Rifondazione, che si è tenuta a Santa Marinella, dal 3 al 7 settembre, più che una “scuola di politica”, è stata l’esperienza singolare, entusiasmante, di una socialità inedita  - donne e uomini di età e formazione culturale e politica diversa-, capace di ripensarsi collettivamente, di tener ferma l’analisi sull’intreccio di vita e politica, corpo e istituzioni sociali, inconscio e coscienza, sacro e laicità, “costruzione di sé”, come luogo in cui si incrociano residui arcaici e contemporaneità, autonomia ed eteronomia  -come ha sottolineato nella sua relazione Elettra Deiana-, e, al medesimo tempo, rilettura di un modello di civiltà che ha bisogno di nuove chiavi interpretative.
Il soggetto “uno e plurale”, figura finora ambigua, oscillante tra coloriture sacre e litigiose negoziazioni di leader politici, ha già voci e volti reali, protagonisti “in carne e ossa”, momenti di condivisione intellettuale ed emotiva che possono estendersi, avviare un processo di accomunamento di pratiche, attento all’individuo e alla collettività.
Peccato che il rumore della politica istituzionale, amplificato dai media, reso sempre più separato e incomprensibile da una ritualità crescente, sia tale da impedire ogni, pur volonteroso, ascolto.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 15 settembre 2007