Patriarcato e capitalismo: quanti nessi mancanti!
di Lea Melandri

 

In mezzo al disordinato assalto che viene oggi da più parti al ceto politico, visto come dilapidatore di risorse pubbliche, causa prima dell’immobilismo e del crescente malessere sociale, è sempre più difficile capire quali nuove possibilità si aprano per ricucire lo strappo tra i cittadini e chi dovrebbe o vorrebbe rappresentarli, per impedire che il cambiamento, sentito ormai come necessario, diventi appannaggio di facili ideologie populiste.
In questo quadro, fermarsi a riflettere sulla relazione di un Segretario al Comitato politico nazionale del suo partito, che si presuppone rivolta prioritariamente alle sue componenti più autorevoli e ai leader dei partiti più vicini, può sembrare una fatica inutile.
Non lo è se il discorso che si ha davanti è improntato a un desiderio sincero di apertura, se l’allargamento della partecipazione e delle tematiche, su cui si intende avviare un lavoro collettivo, è tale da coinvolgere, sia pure conflittualmente, chi come me viene da un movimento che ha criticato a fondo l’ “ordine esistente”, rammaricandosi, caso mai, che la sinistra, nata all’insegna di un pensiero essenzialmente maschile, non ne vedesse alcune delle componenti più vistose. Non fosse, cioè, abbastanza “radicale”.

Comincerò allora col dire che ho trovato nella relazione di Franco Giordano  (Liberazione) riferimenti al rapporto di potere, tra uomini e donne, né marginali né esornativi, non la solita captatio benevolentiae né la formula sbrigativa, “politicamente corretta”,  in cui si compendia un dominio millenario, quasi fosse un’esercitazione scolastica: “questioni di genere”. 
Dare spazio alle “sollecitazioni” che vengono da un movimento come il femminismo, di cui si conosce molto poco e di cui sarebbe imbarazzante, sconvolgente, accogliere saperi, linguaggi, pratiche che interrogano la vita personale quanto quella pubblica, è il primo indispensabile passaggio se non si vuole che la sinistra rinasca dal suo declino più maschile e più mutilata di prima.
Ma questo vuol dire anche lasciare che emergano contraddizioni, confronti aspri, difese identitarie, nostalgia di consolidate appartenenze, paura di quello stesso “altro mondo possibile”, che si dice di voler costruire, quando non combacia del tutto con quello che si è immaginato, quando costringe a fare i conti col primo ‘straniero’ escluso dalla ‘città degli uomini’.

Del capitalismo attuale, Giordano sottolinea l’aspetto “totalizzante”: un potere economico che impone il suo “ordine” con la “guerra preventiva permanente”, che “colonizza il corpo e la mente”, che riduce “le classi sociali, la persona, la natura e la democrazia” a variabili indipendenti, che “incorpora e riproduce antiche forme di dominio, come l’organizzazione patriarcale della società”.

Di questo abbraccio tra poteri devastanti, che si muovono su temporalità diverse e con diverso radicamento nei corpi, nella vita psichica, nell’esperienza degli individui, ci si aspetterebbe che si dicesse, quanto meno, che sposta centralità rimaste finora intoccabili nella storia del movimento operaio e nella cultura comunista, modelli interpretativi della società e dei conflitti che l’attraversano, basati sulla preminenza dei rapporti produttivi e di classe, e sulla rimozione pressoché totale della sessualità, dei ruoli che vi sono connessi.
Ci si aspetterebbe, soprattutto, che si cominciasse a riflettere su come mai la sinistra che combatte il capitalismo non è riuscita finora a scrollarsi di dosso quel suo progenitore, ben più violento e più subdolo, che è il patriarcato.

Ma la messa a tema si ferma all’enunciazione e il seguito del discorso procede su strade note, dove non si vede traccia né del dominio maschile né del movimento che lo combatte.
Tornano in primo piano, come “ricadute” della globalizzazione economica, la precarietà, il bisogno di sicurezza sociale, la perdita delle conquiste del mondo del lavoro, il rischio che “l’eredità del movimento operaio del ‘900 venga dilapidata”, come se il ‘900 non avesse prodotto, quanto all’ordine esistente, altre ‘rivoluzioni’, a partire dalla scoperta di Freud, a inizio secolo, che terremotava le certezze illuministiche della ragione storica e costringeva a ripensare ogni dualità  -natura/cultura, corpo/mente, inconscio/coscienza, ecc.-, per arrivare ai movimenti di liberazione che hanno portato sulla scena pubblica nuovi soggetti politici  -i neri, gli studenti, le donne- non previsti dalla vulgata marxista.
Ma quella stagione di fermenti nuovi, come si sa, è stata breve e intensa, e anche chi l’ha vissuta, oggi può far finta di non aver visto niente. E infatti, quando nel discorso di Giordano si arriva all’annuncio che, dopo la manifestazione del 20 ottobre, si apriranno gli Stati Generali della Sinistra, il modello partecipativo diventa quello dei forum sociali, dove, come è noto, è prevalsa, quanto alla vicenda dei sessi, una sorta di ‘neutralità’ di ritorno.
Tra il “nuovo” che si sarebbe mosso negli ultimi anni nel nostro paese, le donne  -la grande manifestazione del 14 gennaio 2006 a Milano, le assemblee Usciamodalsilenzio sorte in varie città, il Forumdonne del Prc, la rete femminista della Sinistra europea- spariscono, inglobate, si può immaginare, nelle “varie forme di associazionismo, di protagonismo democratico”, che si affiancano ai protagonisti delle lotte sociali, territoriali, ambientali.
La ‘lezione’ del femminismo ricompare, scollegata dal corpo centrale del discorso, nella parte finale, là dove si prospetta un nuovo processo di socializzazione, non più dominato dalla merce ma dalla possibilità dei soggetti di decidere del proprio destino.
Qui, effettivamente, si riconosce al movimento delle donne di aver portato un tassello mancante all’analisi di Marx: non aver visto che l’universalismo borghese e liberale occultava, oltre al rapporto tra economia e politica, anche la “differenza di genere”.
Partire dal “nesso dialettico uguaglianza/differenza” sembra allora la scelta per uscire da un umanesimo idealistico. Ma è proprio vero che l’universalismo non ha riconosciuto le differenze di genere? Chi ha definito l’ Uno – e poteva farlo solo il sesso che si è fatto protagonista della storia- ha dato forma anche al Due, alle differenze opposte e complementari del maschile e del femminile.
Se il maschile è poi diventato il neutro, l’universale, è perché l’uomo ha pensato di essere il solo a incarnare l’umanità nella sua pienezza. La dialettica degli opposti dice che maschile e femminile, uguaglianza e differenza, sono, nella complementarietà, le due facce dello stesso ‘dio’ che ha preteso di parlare a nome di tutti. Ma questo è un discorso che porta dentro la storia del pensiero femminista, delle cui diverse ‘anime’ credo pochi si siano accorti.

 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 17 ottobre 2007
 

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