La violenza sulle donne non si combatte guardando al passato
Lea Melandri

   

 

Non è un caso che sessismo e razzismo si siano venuti a trovare affiancati e confusi nelle figure di due donne  -Laura Boldrini e Cecile Kyenge- che ricoprono oggi importanti cariche istituzionali e che da subito sono apparse consapevoli del destino toccato alle loro appartenenze: un genere e una cultura “umiliati e sottomessi” in quanto “altri” rispetto al potere dominante. Ad accomunarli è l’inferiorità che per secoli si è creduto di attribuire a “nature” diverse e che, proprio per questo, ha avuto i corpi come principale teatro di violenze.
Ma, mentre il concetto di “razza” come differenza fondata su dati biologici è stato quanto meno messo in discussione da tempo, sulla cultura maschile che ha assegnato alla donna una natura più prossima all’animale che all’umano, ancora pesa un irresponsabile silenzio. I cambiamenti che possono venire dal versante istituzionale –task  force interministeriale, Stati Generali contro la violenza, potenziamento dei centri che tutelano le donne maltrattate, ecc.-, qualora non scompaiano insieme all’emergenza, non sono da sottovalutare. Allo stesso modo è confortante,  dopo anni di appelli, manifestazioni, articoli e pubblicazioni varie, leggere che “la violenza sul corpo delle donne è una questione politica e, ancora prima che materia giuridica, un’emergenza culturale” a cui spetta “la priorità dell’agenda politica di Governo e Parlamento”. (www.feriteamorte.it)

Ma se poi si vanno a leggere, o ad ascoltare, le dichiarazioni e i commenti che hanno fatto seguito al concentrato di sessismo a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi -stupri, omicidi, minacce e insulti sul web a Boldrini e Kyenge- viene da dire che non basterà certo un Osservatorio nazionale sulle violenze di genere per portare allo scoperto la complessità e le contraddizioni di un dominio che passa ancora oggi attraverso i rapporti più intimi: dalla sessualità alla maternità, ai legami affettivi e famigliari.

A dare voce a un giudizio diffuso e rassicurante è stato il sindaco di Sannicandro, il comune in provincia di Bari dove è avvenuta la strage famigliare del 3-4 maggio. Intervistato da RaiNews24 (domenica 5.05.2013), non ha nascosto, sia pure accompagnandolo con un “ahimé!”, il sollievo suo e della comunità per il fatto che, qualora fosse confermata, la tesi dell’omicidio-suicidio avrebbe “restituito tutto al dramma di una famiglia”, e non a una aggressione esterna. Detto altrimenti, si sarebbe trattato di una vicenda “privata”, della patologia di un singolo, di una tragedia maturata in un particolare ambito domestico e destinata a rimanervi “inspiegabile”,  dal momento che la famiglia coinvolta  poteva essere ritenuta da tutti “normale” e di massimo rispetto: marito e moglie farmacisti, lei vice sindaca.

Che siano proprio la normalità e i lati oscuri che restano dietro a tutto ciò che ci è noto e famigliare a dover essere interrogati  -lo straniero e l’aggressore che ci minaccia dall’interno-, non sembra attraversare neppure l’analisi di Lucietta Scaraffia (“Il Messaggero”, 05.05.2013) che attribuisce l’origine della violenza alla “crisi della famiglia”. Anche qui il riferimento è all’opinione diffusa che le mura della casa abbiano custodito finora una piccola comunità “solidale e coesa”, capace di far fronte a “sconfitte individuali” e “smottamenti sociali”:
“La storia ci insegna che non è certo la prima volta che l’Italia si trova ad affrontare momenti bui (…) Tutti concordano però nel dire che in passato una delle forze  -anzi, forse la principale- su cui gli italiani hanno sempre potuto contare per ricostruire una società migliore è stata la famiglia, un’istituzione coesa in cui la solidarietà interna ha attutito e contrastato la durezza delle condizioni esterne.”

Che la famiglia sia stata in passato più “compatta” di come si presenta oggi  -terremotata da una “rivoluzione antropologica e sociale”, da una inedita libertà femminile- non c’è dubbio. Ma a renderla tale non è stata certo l’esistenza di una solidarietà tra uomini e donne, che resta ancora un miraggio a fronte di secoli di patriarcato, divisione sessuale del lavoro, discriminazioni, gerarchie di potere, controllo e sfruttamento del corpo delle donne, sia dal punto di vista sessuale che procreativo. Ribaltando i termini della questione, e quindi del rapporto causa-effetto,  si potrebbe dire che se la famiglia oggi è in crisi è perché l’obbedienza, la sottomissione, la forza rassegnata con cui le donne hanno fatto da supporto materiale e psicologico a padri, mariti, figli, fratelli, amanti, spesso violenti, non sono più considerate giustamente delle virtù; perché si è cominciato a vedere, dietro la morale sessuale imposta alle donne, dietro il destino di mogli e madri, l’espropriazione della loro esistenza come persone. E’ vero  -e in questo concordo con Scaraffia- che gli omicidi, a cui fa seguito il suicidio dell’aggressore, sono “i sintomi di un dolore più vasto che non si può spiegare solo con l’odio verso le donne”. Ma, altro è dire che il sessismo interroga uomini e donne, per l’ambiguità di un rapporto che ha visto confondersi amore e violenza, desiderio di appartenenza intima a un altro essere e possesso, dipendenza e dominazione, complicità e rivolta. Altro è invece insistere sulla insostenibilità da parte maschile di condizioni in cui si mescolano perdita del lavoro, di una casa, di figli e povertà, lasciando intendere che la causa di questa “cocente sconfitta” e umiliazione è il venire meno dell’ “anima” della famiglia. In altre parole, attribuendola all’eclissarsi di quella figura ideale di moglie e madre che ha coperto finora la dipendenza e la fragilità degli uomini, consentendo loro un’emancipazione illusoria dal bisogno di cura nella sfera pubblica.

Se l’idealizzazione della famiglia è così duratura, nonostante sia smentita dai dati che parlano di separazioni, divorzi, maltrattamenti, abusi e omicidi, oltre che del numero crescente di persone che vivono sole, forse è perché è lì, negli interni delle case, che tornano ancora a confondersi la nostalgia dei figli, il potere di indispensabilità delle madri e i residui di un dominio patriarcale in declino. Per essere stato così a lungo depositario dei bisogni primordiali dell’essere umano, della memoria della specie e di ogni singolo individuo, il nucleo famigliare è oggi il luogo più esposto a spinte contrastanti di conservazione e cambiamento. Il saccheggio che subisce quotidianamente per l’invasività del mercato e dei nuovi mezzi di comunicazione, se per un verso lo costringono ad aprirsi verso il mondo, per l’altro ne rafforzano la funzione protettiva e l’immagine di riserva salvifica. Il dubbio che le donne, mogli, madri, sorelle, non siano più disponibili a portare il peso maggiore in fatto di cura e sostegno morale alla crisi di un modello di civiltà che non hanno contribuito, se non indirettamente, a creare, è certamente una delle ragioni che porta in questo momento allo scoperto, proprio a partire dalla famiglia,  fragilità e violenza maschile.

La perdita della centralità che ha avuto la figura materna in quell’aggregato tutt’altro che secondario della grande economia che è il lavoro necessario alla riproduzione della vita, è come se avesse tolto il velo alla neutralità e all’autonomia apparente di cui si è fatto forte finora il primato maschile nel governo del mondo. Ma ha lasciato anche le donne nella posizione incerta di chi vede decantati i vecchi equilibri, senza che se ne siano profilati dei nuovi. Mancano ancora, in questo difficile, contraddittorio passaggio della convivenza umana, la volontà e l’immaginazione necessarie per ripensare il piacere e la responsabilità del vivere fuori dalle divisioni di ruoli, dalle gerarchie di potere e di valore, che hanno segnato disastrosamente non solo la relazione tra donne e uomini, ma anche tra corpo e pensiero, biologia e storia, individuo e società.

 

pubblicato anche su Gli altri del 17 maggio 2013

 

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