Dietro il velo
di Lea Melandri

 

Il dibattito che ha fatto seguito al caso Hina, agli stupri avvenuti in agosto a Milano, alla ripresa di omicidi di donne in ambito famigliare, e infine ai casi di violenza sessuale denunciati pochi giorni fa a Roma, non poteva che percorrere la strada tortuosa dell’annodamento tra quello che oggi viene visto come “scontro di civiltà”, in particolare tra Islam e Occidente, e la guerra più antica, universalmente estesa, per quanto mai dichiarata, tra uomo e donna. Era altrettanto inevitabile che avrebbe finito per oscillare tra spiegazioni opposte: per alcuni, l’evidenza rimasta così a lungo invisibile di un dominio, come quello maschile, che attraversa la storia quasi senza variazioni significative di tempi e luoghi; per altri, il legame manifesto tra la violenza contro le donne e la rinascita di fondamentalismi religiosi, difese identitarie, bisogni di appartenenza.

Il corpo femminile, la sessualità, sono l’ossessione di culture “arretrate”, di rigurgiti patriarcali, di pregiudizi antichi nascosti nelle pieghe della modernità, o non appartengono piuttosto ai fondamenti stessi dell’economia, della politica, dei poteri e dei saperi istituzionali, su cui si sono costruite le società umane sotto qualunque cielo? “Cristo e Maometto” è la semplificazione rozza, con cui si vorrebbe inglobare oggi il rapporto tra i sessi, in quella “campagna di cultura e di civiltà” che l’Occidente, “custode” dell’universalità dei diritti dell’uomo e del cittadino, è chiamato a “impostare e vincere, anche con il ricorso alla forza”, contro l’insorgenza di un Islam guerriero e dominatore” (Il Foglio, 21.8.06). Non è un caso che, a dispetto di cronache, Rapporti Onu, inchieste, denunce quotidiane, che descrivono la molteplicità tragica, agghiacciante, delle forme che prende la violenza contro le donne, si torni sempre riduttivamente, coattivamente, alla questione del “velo”.

Che se ne discuta animosamente nei governi, nelle piazze del mondo, o che se ne impadroniscano gli stilisti per dare una coloritura esotica alla moda, che lo si enfatizzi fino a farne oggetto di leggi in alcuni Stati, o che si preferisca considerarlo alla stregua dei conflitti che attraversano da sempre tradizioni famigliari e comunitarie, il “velo islamico” è oggi l’immagine, o, se si preferisce, il simbolo più appropriato a rappresentare quel “confine”, “scontro” o “dialogo” , fra mondi che si vorrebbero chiusi, omogenei, con identità definite, valori propri e irriducibili. Come si spiega che un abbigliamento, sia pure discutibile per l’ombra di imposizione, razzista, patriarcale, che lo accompagna, diventi, come ha detto l’ex-ministro Straw, “una dichiarazione di separazione e diversità tanto visibile da mettere in pericolo l’armonia sociale”, o, per dirla con un altro noto esponente politico inglese, Gordon Brown, “parte di un discorso più vasto sulla diversità e l’integrazione, sulle responsabilità e i diritti di tutti coloro che vivono in Gran Bretagna”?

In confronto a tanto clamore, il richiamo del Corano affinché le credenti abbassino i loro sguardi e siano caste, sfuma come un leggero velo di cipria.

Sull’ombelico scoperto di Hina, nella foto che giornali e Tv hanno riportato con più insistenza, gli appartenenti a comunità musulmane in Italia vengono chiamati a misurare la loro maggiore o minore aderenza alla sensibilità, agli umori, ai comportamenti del Paese che li ospita, come se in quel rettangolo di pelle scoperta si fossero concentrati secoli di ribellione e di conquiste femminili di libertà. Forse è proprio in questo riduzionismo estremo –appiattimento di una realtà multiforme su un solo aspetto, su un registro unico- che va cercata la saldatura tra violenza maschile e “scontro di civiltà”. Classificare gli abitanti del pianeta sulla base di una identità unica, trasformare il mondo in una “federazione di religioni”, come se non esistesse un numero infinito di altre divisioni e affiliazioni, di classe, lingua, genere, professione, opinione politica, ecc.  –scrive Amartya Sen (Identità e violenza, Laterza 2006)- è l’arte con cui gli “istigatori di violenza” costruiscono contrapposizioni immaginarie, destinate a trasformarsi con una rapidità sorprendente in guerre reali. Valga per tutti l’esempio dei Balcani.

Gli “odi settari”, se incoraggiati, possono diffondersi in un lampo, l’identificazione con un gruppo di persone “può essere trasformata in un’arma potentissima per esercitare violenza su un altro gruppo”. Sono passati molti anni, e sono anche mutati, insieme al contesto economico e politico,  i processi di settarizzazione a cui assistiamo oggi, ma la logica che li guida non è molto diversa da quella descritta da Elvio Fachinelli nel suo saggio Gruppo chiuso o gruppo aperto? (“Quaderni piacentini”, n.36, nov. 1968): “Il movimento di allontanamento dall’esterno, e quello di raccolta in un nucleo chiuso, nascono dalla stessa esigenza”, “il processo di differenziazione dagli estranei” è intimamente collegato a quello di una progressiva adeguazione a un’immagine di gruppo omogeneo perfettamente fuso nell’unità dei suoi membri”. Il richiamo a un “bene ideale” da difendere e proteggere è ciò che oggi nei Paesi europei, minacciati dall’eterogeneità crescente dei loro abitanti, va a costruire “valori”, “identità” che si vorrebbero “autoctone”, senza macchia e contaminazione, da imporre come modello universale di umanità.

Ma se queste sono le logiche d’amore e morte, conservazione e distruzione, che da sempre sottostanno ai conflitti tra gruppi, popoli, culture, la domanda allora si sposta, si fa più radicale. “Quello che si fa fatica a capire –precisa Amartya Sen- è perché questa ricerca di unicità abbia tanto successo, considerando che si tratta di una tesi straordinariamente ingenua in un mondo in cui la pluralità di affiliazione è un fatto evidente”. Soprattutto –ma questo Amartya Sen non lo dice-, perché la cultura, e, nella cultura specificamente la religione, diventa sistema unico per classificare gli esseri umani? Nell’accezione ristretta con cui oggi si usa il termine “cultura”, riducendola a credo religiosi, tradizione, norme consuetudinarie, obblighi comunitari, è chiaro che ci si muove sul terreno che più è rimasto separato dalla politica, dalla vita pubblica e dalle sue istituzioni, pur essendone incluso. Riconoscersi una “pluralità di appartenenze” e poter scegliere a ragion veduta quale priorità dare di volta in volta all’una o all’altra, è la conquista di una libertà individuale che emerge con lentezza alla storia, e che, al contrario, può retrocedere con estrema rapidità.

Le “identità precostituite”, tra cui prima fra tutte quella dell’appartenenza a un sesso o all’altro, affondano per l’appunto in quell’area di frontiera  -tra biologia e storia, famiglia e società, sentimenti e ragione- che vede ancora il singolo amalgamato col gruppo, prigioniero delle “idee ricevute” insieme alla garanzia di sopravvivenza. E’ in questa vasta zona di esperienza, dentro cui gravitano vicende essenziali dell’umano, come la nascita, la sessualità, la malattia, la morte, che la religione ha il suo radicamento, anche se sempre più vacillante, conteso oggi dalle biotecnologie e dalla biopolitica, ma pur sempre rivendicato come “riserva” propria, come luogo di un ordine “naturale”, di “valori indiscutibili”, di cui la Chiesa, o le chiese, sarebbero depositarie.

Anziché fissarsi sull’idea che “la religione si politicizza”, e gridare contro l’ingerenza clericale nelle scelte dei governi, si dovrebbe riconoscere che oggi la politica  - e con essa i poteri forti che l’accompagnano, come l’economia, la scienza, la tecnica- comincia ad avvicinarsi alla sfera che è stata appannaggio del sacro, e che ci stiamo abituando a nominare genericamente come “vita”.

Il pesante “velo” che ha chiuso metà del genere umano nelle case, nella funzione sessuale e riproduttiva, nella cura di bambini, anziani, malati, solo con fatica, estrema lentezza, resistenze di ogni sorta, affiora alla coscienza mostrandosi, una volta sfrondato dalle mille coperture  -onore, pudore, protezione, cavalleria-, come il primo e il più duraturo modello di proprietà e di dominio.

Se la “libertà di scegliere la propria identità agli occhi degli altri è sempre limitata”, quale maggiore semplificazione di quella che ha identificato le donne con una funzione biologica? Con o senza veli, protetta o esposta rispetto allo sguardo, al desiderio dell’uomo, la donna resta comunque prigioniera di un’identità precostituita fin dall’origine della specie, vincolata a quella cultura atavica che la vede essenzialmente e prioritariamente come corpo, puro o impuro, schiavo o liberato, sottomesso o trasgressivo, ma sempre e comunque corpo.

Se la religione  -e, confusi con essa pregiudizi antichi spacciati per “valori”-  si va imponendo così aggressivamente come regolatore unico della convivenza tra popoli, gruppi, lingue, culture, è perché tra le comunità storiche di sesso maschile quella dei sacerdoti, e in generale dei rappresentanti di dio in terra, ha avuto, più di ogni altra, controllo dei corpi e accesso ai segreti del cuore femminile. Se è facile condannare la violenza manifesta contro le donne, non altrettanto vibrata ed esplicita è la protesta per il peso che vanno assumendo le autorità religiose in sostituzione della società civile, dei cittadini, dei loro legittimi rappresentanti, quando si tratta di questioni riguardanti la famiglia, la sessualità, la maternità, le convivenze, le libertà personali.

A un’idea di “virilità” messa in crisi da profondi cambiamenti, in quella che ancora si vuol vedere come “natura” della donna, risponde l’arrogante, violenta affermazione dell’autorità maschile, con nessi evidenti tra la violenza che si consuma tra le mura domestiche e la prevaricazione che esercitano in ambito politico, giuridico, morale, i fondamentalisti e i comunitaristi di ogni specie.

Se sul “velo” resta aperto un largo margine di dubbio, tra scelta e imposizione, molto più pericolosa è la maschilità che avanza oggi sulla scena pubblica, protettiva e insieme guerriera, oscillante tra “dialogo” e “scontro”, determinata, in entrambi i casi, a non lasciarsi sfuggire il dominio più antico della storia del mondo.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 18 ottobre 2006