La violenza sessista è l’atto di nascita della
politica
di Lea Melandri
La politica, da sempre, sembra aver bisogno di semplificazioni, di
proclami, di colpi verbali ben assestati, di simbologie facili e
famigliari al senso comune. La guerra mai dichiarata al sesso femminile,
che ha segnato fin dal suo atto fondativo il dominio di una comunità
storica di uomini, non poteva non lasciare tracce durature nella vita
degli individui e delle società, nella cultura e nelle istituzioni della
vita pubblica, nelle abitudini quotidiane e nella storia dei popoli.
Per questo è molto importante che la manifestazione del 24 novembre
contro la violenza degli uomini sulle donne mantenga aperta, per quanto è
possibile, la complessità dei temi, delle analisi, dei cambiamenti e delle
pratiche politiche che da anni tentano di sottrarre il rapporto tra i
sessi alla ‘normalizzazione’ a cui va incontro un potere dato come ‘naturale’,
evidente e invisibile al medesimo tempo, come lo sono gli accadimenti che
non dipendono dalla nostra volontà.
Lo stupro e
l’omicidio sono le forme estreme del sessismo e sarebbe un errore
considerarle isolatamente, come se non fossero situate in una linea di
continuità con rapporti di potere e culture patriarcali che, nonostante la
costituzione, le leggi, i ‘valori’ sbandierati della democrazia, stentano
a riconoscere la donna come ‘persona’. La donna resta -purtroppo anche
nel sentire e nel modo di pensare di molte donne, per ragioni di
adattamento e di sopravvivenza- una funzione sessuale e procreativa.
E’ il corpo che assicura piacere, cure, continuità della specie. Non è un
caso che una delle ragioni di maggior allarme per una civiltà che avverte
segnali di crisi, accerchiata dall’immigrazione crescente e dall’odio
degli altri popoli, sia la denatalità.
E’ importante perciò che si dica che la violabilità del corpo femminile
-la sua penetrabilità e uccidibilità- non appartiene all’ordine delle
pulsioni ‘naturali’, ai raptus momentanei di follia, o alla arretratezza
di costumi ‘barbari’, stranieri, ma che sta dentro la nostra storia, greca
romana cristiana, a cui si torna oggi a fare riferimento per
differenziarla dalla presenza in Europa di altre culture.
Essa fa tutt’uno con la nascita della pòlis, con la divisione dei ruoli
sessuali del lavoro, con la separazione tra la casa e la città, la
famiglia e lo Stato. La cancellazione della donna come persona,
individualità, soggetto politico, produce inevitabilmente lo svilimento
del suo corpo, l’assimilazione agli altri ‘corpi vili’ -l’adolescente, il
prigioniero, lo schiavo- su cui l’uomo ha esercitato fino alle soglie
della modernità un potere sovrano di vita e di morte.
Le ideologie, le
abitudini del ceto politico e degli intellettuali che lo corteggiano non
sono molto cambiati. L’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a
essere tuttora “imperfetta”, ha continuato a convivere con l’idea di un
femminile come ‘mancanza’, ‘subumanità’, soggetto debole da proteggere,
tutelare, difendere dai propri cattivi impulsi. Se l’emancipazione risulta
spesso così respingente per le donne stesse che l’hanno desiderata è
perché si configura come fuga da un femminile svalutato, insignificante,
subalterno alla visione del mondo di cui è il prodotto.
Non suona purtroppo così lontana la definizione che ne dava, agli albori
del ‘900, Paolo Mantegazza: “…questo nuovo liberto della società moderna è
tollerato, non eguagliato a noi; è come un orfano raccolto per la via, che
vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante. Se da
concubina è diventata madre, un gran passo rimane a farsi perché diventi
donna, o, dirò meglio, uomo-femmina, una creatura mobilissima e
delicatissima, che pensi e senta femminilmente e completi così in noi
l’aspetto delle cose”.
Che altro è la “femminilizzazione” del lavoro, della politica, se non
l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera
pubblica, la ‘riserva’ di energie chiamate in soccorso di una civiltà in
declino?
Combattere la
violenza manifesta significa oggi prendere il problema alla radice:
snidare la cultura che la produce, incarnata nelle istituzioni, nelle
condizioni lavorative, nella morale così come nelle immagini della
pubblicità e dello spettacolo, nelle norme non scritte della tradizione e
nei saperi colti. Vuol dire soprattutto riconoscere, fuori dalle ideologie
che ancora esaltano la famiglia come rifugio, sicurezza, garanzia di cure
e di affetti, quello che è ormai sotto gli occhi di tutti, documentato da
resoconti internazionali e dalle cronache quotidiane: l’annodamento
perverso di amore e odio, di legami di dipendenza, indispensabilità
reciproca e strappi volti ad affermare l’autonomia individuale.
Confinando la donna nel ruolo di madre, istituzionalizzando l’infanzia
sotto il potere di un ‘padre-padrone’, l’uomo ha costretto anche se stesso
a restare eterno bambino, a portare una maschera di virilità sempre
minacciata. Si può uccidere una donna di cui si teme la forza inglobante e
di cui, al contrario, non si tollera che abbia vita propria, libertà di
disporre del proprio corpo e delle proprie capacità.
La rimozione che ancor pesa sul dominio più antico del mondo ha senza
dubbio a che fare con lo sconvolgimento, materiale e simbolico, che
produrrebbe la consapevolezza di quanto la costruzione della sfera
pubblica sia debitrice a quel retroterra famigliare che l’ha finora
sostenuta e garantita.
“Senza il nostro intervento -scriveva Virginia Woolf quasi un secolo fa-
nessuno avrebbe solcato questi oceani, e queste fertili terre sarebbero
ancora un deserto. Abbiamo partorito, e allevato e lavato e insegnato,
forse fino all’età di sei o sette anni, i milleseicentoventitrè milioni di
esseri umani che secondo le statistiche popolano il mondo”.
La violenza contro
le donne, che avviene prevalentemente nelle case e per mano di padri,
mariti e amanti, parla non a caso di un “ordine naturale” o “divino” che
dà segni di cedimento, di una libertà che si manifesta imprevista e
perturbante là dove l’uomo si era illuso finora di vedere il fondamento
sicuro, obbediente e fedele, del suo agire pubblico.
Gli uomini diventano violenti quasi sempre quando si profila una
separazione, stuprano e a volte uccidono quando incontrano un rifiuto alle
loro richieste sessuali. Uccidono per l’angoscia dell’abbandono, per il
limite che la libertà dell’altra impone alla propria, o perché si trovano
per la prima volta in balìa di bisogni e dipendenze rimaste in ombra o
cancellati?
Se oggi la violenza
manifesta è il detonatore di una ribellione che cova da decenni, da quando
una coscienza femminile più autonoma da modelli interiorizzati ha
cominciato ad aprire sconnessure negli equilibri esistenti, forse è perché
si viene oggi a collocare sul confine sempre più impercettibile che separa
sfera pubblica e sfera privata.
Le violenze in famiglia passano ancora tra i fatti di cronaca nera, ma da
lì vengono ripescate, sia pure in termini quantitativi, dalle statistiche
e dalle inchieste. Gli stupri e gli omicidi che hanno come teatro la
strada, lo spazio aperto delle città, quando non siano distorti in chiave
di campagna contro gli stranieri, lasciano comunque intravedere gli
interni di famiglia, le relazioni precoci, da cui prende forma la furia
distruttrice.
Le forze politiche che hanno risposto con l’indifferenza o con l’ostilità
alla rivoluzione femminista degli anni ’70, che scopriva la politicità del
corpo e della persona, oggi sono costrette loro malgrado, e a rischio
altrimenti di un declino definitivo, a interrogare con la stessa
consapevolezza il potere che gli uomini si sono arrogati nella vita
pubblica, a chiedersi se la maggiore violenza, la più ingiustificabile
oggi, non sia quella che si fa forte del silenzio e della neutralità per
coprire un dominio ormai svelato in tutta la sua estensione.
Il residuo più
arcaico e più ‘selvaggio’ di un potere che si è incorporato nel tessuto
sociale tanto da scomparire dalla coscienza, riemerge paradossalmente come
‘attualità’ nel momento in cui tornano a farsi strada tra le donne spinte
emancipatorie e liberatrici: la richiesta di una presenza femminile
paritaria “ovunque si decida”, la critica ai fondamentalismi di ogni
specie, la messa in discussione della centralità del lavoro e
dell’operaismo nelle politiche della sinistra, il ripensamento di tutte le
dualità, a partire da quella che ha contrapposto e complementarizzato
femminile e maschile, biologia e storia, individuo e società.
C’è chi legge questa ‘ricomparsa’ come regressione e imbarbarimento del
rapporto tra i sessi. Preferisco pensare che, più che di un ritorno
dell’uguale, si tratti della ‘ripresa’ di una ‘preistoria’ mai del tutto
eclissata, che ora torna a scuotere la civiltà dalle sue viscere
inesplorate, ma che non può non fare i conti con una coscienza diversa e
con una libertà femminile finora inedita .
I segnali che vengono da un movimento di donne oggi molto più esteso e
diversificato nelle sue componenti, sia per età anagrafica che per
interessi e pratiche politiche, fanno sperare che si stia riaprendo una
stagione nuova di conflitti portati specificamente sul rapporto uomo-donna
ma con la certezza di incrociare in questo modo alcuni dei passaggi oggi
più difficili e inquietanti della convivenza tra gruppi sociali, popoli e
culture diverse.
articolo
pubblicato nell'inserto di
Liberazione di domenica 18 novembre 2007
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