Una perversa normalità
di Lea Melandri

 

Per fortuna non ci sono solo fidanzati, mariti, amanti che uccidono le donne. Apprendo con sollievo dall’articolo di Luca Stanzione e Daniele Licheni (Liberazione 30. 9.07) che si è tenuto domenica 30 settembre a Roma, presso la Direzione nazionale del Prc, un convegno dei Giovani Comunisti “di genere maschile”, convinti che il dibattito sul “totalitarismo patriarcale” non sia meno urgente della lotta “contro l’invasività dell’impresa”, per cui dovrebbe inondare da subito la sinistra che si avvia a diventare “unita e plurale”.
Un anno fa era uscito un “appello”, promosso dall’associazione Maschile Plurale, che portava come titolo: “La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo parola come uomini”. Poche gocce nel mare del silenzio  -‘omertoso’, mi verrebbe da dire-, che ostentatamente politici ciarlieri, intellettuali logorroici, oppongono alla verità più inquietante che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, molto più subdola e più nascosta dell’ingiustizia sociale, dello sfruttamento economico, della devastazione dell’ambiente? No davvero!
Forse non è ancora il “sovvertimento” che si augurano Luca e Daniele, ma è uno di quegli ‘scarti’, di quelle aperture, di quei passi a lato, che la coscienza storica fa raramente, che possono solo essere tenuti in ombra, repressi, ma non cancellati. E’ quel “segnale dell’avvenire” che, simile all’”utopia” di Walter Benjamin, si annuncia come percezione acuta delle esigenze radicali del presente.

La goccia scava la pietra, dicevano i latini, ma oggi le poche voci che finalmente collocano stupri e omicidi di donne all’interno del dominio più duraturo della storia umana –quello di un sesso sull’altro-, facendone in questo modo una questione centrale della politica, si trovano davanti una muraglia fatta di ignoranza, falsa neutralità, indifferenza o arrogante diniego.
Leggendo i giornali, ascoltando i notiziari televisivi sugli ultimi delitti, che hanno come vittima una donna, colpisce l’evidente schizofrenia tra i dati statistici  - i “numeri” della carneficina che oltrepassa ogni confine di tempo e di luogo- e la narrazione che gli scorre a lato, preoccupata di riempire dei particolari più morbosamente orrorifici la scena in cui poter collocare il ‘folle’ di turno.
Ogni volta, con un rituale che dovrebbe far riflettere sulle ossessioni e sulle paure della nostra epoca, il ‘mostruoso’ emerge dalla ‘normalità’ di una casa, di una famiglia, di un paese, di una classe sociale, e sempre, anziché chiedersi che cosa nasconde quella facciata tranquilla di perbenismo, si sposta l’attenzione sul “raptus” momentaneo di follia che sottrae inspiegabilmente un individuo al suo ambiente, alla educazione ricevuta, alla sua appartenenza di sesso, ai suoi legami più intimi.

E’ così che l’abnorme, l’osceno, l’imprevisto, facendosi esterno, ‘straniero’ alla situazione da cui ha origine, viene opportuno e benefico a sollevare da ogni responsabilità collettiva, da  interrogativi diversi da quelli processuali.
Bruno Vespa, il gran cerimoniere di tutte le stagioni, di tutti i fatti e misfatti, ricostruisce a Porta a Porta la scena del delitto con puntigliosa dovizia di particolari, chiama i suoi esperti a far concorrenza a giudici e avvocati, appronta uno spettacolo e una audience assicurata per un discreto numero di sere.
Perché arrivi agli spettatori un sia pur passeggero brivido per il perverso cinismo che passa in questo ‘normale’ intrattenimento, occorre aspettare Luciana Littizzetto o qualche altra lucida scheggia di ironia.
E ben vengano i comici, se, oltre a farci ridere, riescono a scoperchiare per un momento i sepolcri imbiancati del conformismo, dell’arroganza, della manipolazione irresponsabile di verità evidenti.

Evidente è che gli uomini violentano e uccidono le donne: non sono i malati di mente, i marginali, i pezzenti, i teppisti, i criminali noti, ma giovani ‘normali’, rispettosi e avviati a buona carriera. Evidente è che il luogo primo di questo femminicidio è la casa, la famiglia, il luogo che sta in cima ai “valori” della retorica di destra, ma anche delle politiche sociali di una parte della sinistra, senza che nessuno si chieda se la violenza non nasca proprio da lì, da quei lacci famigliari che, istituzionalizzando l’infanzia, perpetuano al medesimo tempo lo sfruttamento del lavoro femminile gratuito, la lontananza delle donne dalla sfera pubblica, la subordinazione al potere maschile dato come “naturale”, l’ideologia che le vuole eternamente madri.
“La violenza contro le donne –ha scritto Marco Deriu- “parla sempre più di una mancata elaborazione e di un affanno maschile di fronte a una libertà femminile, piuttosto che di un potere maschile e di una sottomissione femminile”.
Se è sicuramente vero che la crescita di autonomia delle donne è sentita come una minaccia, per chi ha creduto finora di poter disporre del loro corpo e della loro dedizione incondizionata, chi, se non gli uomini stessi  -a partire da quelli che rivestono posti di potere, di visibilità, di autorevolezza e di ascolto pubblico-, può cominciare a smascherare la falsa naturalezza di un dominio che si è fatto forte finora della separazione tra famiglia  e società, della divisione sessuale del lavoro, del silenzio storico delle donne, o della loro difficoltà a farsi ascoltare, e che ancora oggi, astutamente, vorrebbe far passare la violenza di genere come un problema di “sicurezza”?
Se il re ormai è nudo, i suoi imbanditori la fanno ancora da protagonisti sulla scena pubblica, e non c’è da meravigliarsi se la gente non riesce più a distinguere i paladini degli oppressi dagli oppressori. C’è almeno un caso in cui la confusione è totale, ed è la violenza sessista.
 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 2 ottobre 2007
 

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