Tor di Quinto non ci inganni, la violenza è sessista
di Lea Melandri


Fatma Charfi

La montatura mediatica sul caso di Tor di Quinto, dove la violenza nei confronti della donna uccisa, è stata usata e abusata per montare una campagna mediatica e politica xenofoba contro i rumeni, ci fa capire bene come sia difficile far passare la cosa più evidente: che la violenza contro le donne avviene per il 90 per cento in famiglia. I nostri governanti ci ripropongono l'intreccio, pericoloso, tra violenza e sicurezza, dimenticando che il problema, a Tor di Quinto come nelle altre città italiane, si chiama sessismo e non ha connotazioni di etnia, perché riguarda gli uomini di tutti i paesi.

Accanto al montante clima di odio, cresce anche l'indignazione di molte donne, che non si vogliono prestare al gioco né del sindaco di Roma Veltroni, né del capo del Governo Prodi. E' anche per questa ragione che la manifestazione nazionale "contro la violenza degli uomini sulle donne", indetta per il 24 novembre da gruppi femministi romani, sarà sicuramente partecipata, perché raccoglie un sentimento diffuso di ribellione non solo verso gli uomini che maltrattano, stuprano, uccidono, ma per quella maggioranza maschile silenziosa che ancora non riesce a dire:
 “è una violenza che ci riguarda, riguarda il dominio storico che il nostro sesso ha esercitato sull’altra metà della specie umana, riguarda quella che è stata considerata la cellula prima della società, cioè la famiglia, ma che per una inspiegabile, macroscopica contraddizione si è voluto che ne restasse separata, inclusa attraverso un’esclusione dalla sfera pubblica, così come la storia ha fatto con la natura, il pensiero col corpo.

Da quell’ ‘altrove’, da quel margine che la politica “ha deliberatamente lasciato a un potere patriarcale sul quale non andava messo becco” (Rossana Rossanda), considerandolo una “libertà” naturale, sono uscite, quasi quarant’anni fa, voci, saperi, movimenti di donne per dire che la lunga oppressione degli uomini sull’altro sesso comincia proprio là dove nessuno vorrebbe vederla: nell’amore, nelle relazioni sessuali, nei legami di parentela e nell’appartenenza intima a un altro essere, quale è l’unione della madre col figlio nella fase iniziale della vita.
La cancellazione della sessualità femminile, conseguente alla riduzione della donna a madre  -luogo della continuità della specie, garanzia di sopravvivenza e di piacere per l’uomo-, l’inevitabile adattamento a una visione del mondo dettata da un unico protagonista, le gravidanze indesiderate e gli aborti clandestini, avevano fatto dire allora che, per una donna, “è già violenza”, sia pure “invisibile”, quella che passa attraverso l’interiorizzazione di modelli imposti, nell’apprendimento e nella trasmissione della stessa lingua , degli stessi saperi che ti hanno cancellata, nell’aver confuso il sacrificio di sé con l’espressione più alta del proprio essere.

La costruzione lenta e faticosa di una individualità femminile “autonoma” da una rappresentazione del mondo interiormente ammessa  -come ebbe a scrivere già un secolo fa Sibilla Aleramo- e poi compresa per virtù di analisi”, mi piace pensare che, al di là degli esiti diversi che ha avuto nella storia del femminismo italiano, sia oggi il felice ‘antecedente’ della libertà con cui generazioni venute dopo possono oggi guardare con lucidità alla violenza manifesta –stupri, omicidi-, senza cadere nell’inganno di chi ancora vorrebbe oscurare il luogo, la cultura, l’immaginario, da cui trae da millenni il suo alimento, e cioè la famiglia ‘naturale’, l’eterosessualità normativa, la centralità contraddittoria della donna madre e maestra, costretta suo malgrado a far da tramite a una socializzazione funzionale al potere maschile, a una comunità storica di uomini.
La forza innovativa di quella che Edda Billi, della Casa internazionale delle donne di Roma, ha chiamato un “sommovimento”, destinato a segnare una ripresa del femminismo, sta proprio nell’aver sfatato una “evidenza invisibile”, verità sotto gli occhi di tutti ma così inquietanti da accecare: che sono gli uomini a far violenza alle donne  - non il ‘barbaro’ straniero o lo psicopatico-, che il luogo in cui si consumano maltrattamenti, stupri, omicidi, violenze psicologiche, è proprio quello insospettato che sta in cima agli affetti, ai valori, ai richiami della religione e della politica  -la casa, la coppia, la famiglia.

Non era scontato che nel confuso, irrazionale bailame sociale e politico in cui siamo immersi, dove si agitano ‘minacce’, ‘insicurezze’ enfatizzate ad arte, nuovi e vecchi razzismi, difese identitarie, smania di ‘pulizie’ etniche, sessuali, o semplicemente desiderio di quieto vivere, riuscisse a farsi strada una ragione lucida, sgombra da pregiudizi, vicina all’esperienza personale, alla quotidianità, quanto alle vicende della vita pubblica, capace di muoversi fuori da astratti dualismi tra sentimenti e leggi, pratiche di movimento e forme organizzate della politica.
“Sommovimento” mi sembra che esprima bene il rinascere di un desiderio che ‘accomuna’, che cerca il simile nella diversità, una condivisione che non ignora le differenze, che sa andare alla radice nell’individuare le cause, senza perdere di vista la superficie, l’emergenza, la necessità di esserci nel ‘qui’ e ‘ora’ del contesto in cui viviamo.

Le due assemblee, che ci sono state a Roma, presso la Casa internazionale delle donne, il 21 e il 27 ottobre 2007, in preparazione della manifestazione, presenti donne da diverse città d’Italia, sono state ignorate come sempre dall’informazione che insegue l’ultima esternazione, l’ultima bega dei leader politici, e non sa riconoscere i segnali dei cambiamenti effettivi che avvengono nella coscienza di una società, di un’epoca, di una generazione.
Eppure avrebbero avuto molto da imparare, sia le masse che si fanno prendere dalla ‘democrazia’ demiurgica e anestetizzante di Walter Veltroni, sia quelle che hanno sfilato il 20 ottobre per chiedere “più giustizia sociale”, mentre ancora stentano a dire che la società è fatta di uomini e donne, legati da un secolare, perverso rapporto di amore e odio.
Avrebbero capito che ripensare la politica a partire dalla vita, da tutto ciò che oggi la incalza per modificarla o distruggerla, vuol dire riconoscere la pluralità dei protagonisti che operano nello spazio pubblico, imparare a parlare la stessa lingua, pur nella diversità delle storie di singoli, gruppi, partiti, movimenti; vuol dire liberare la democrazia dai ceppi della ritualità, delle gerarchie precostituite, dei personalismi, delle decisioni calate dall’alto e passate per ‘volontà di popolo’.

Se il comunicato stampa trasmesso dal sito www.controviolenzadonne.org , per convocare la manifestazione nazionale del 24 novembre, sta diffondendosi e raccogliendo adesioni con una velocità incredibile, è perché nel linguaggio immediato, essenziale, che definisce le ragioni dell’iniziativa, molte donne sentono la corposità e la forza di un pensare e decidere insieme, rispettosi dell’esperienza singola e della collettività.
Un esempio prezioso per quella ‘sinistra’ che vorrebbe rifondarsi “unita e plurale”, ma che ancora annaspa tra contenziosi antichi e diplomatiche trattative di segreterie di partito.
 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 2 novembre 2007