Magris, Bobbio e la violenza del pensiero maschile
di Lea Melandri


Non ho mai avuto dubbi che, dietro il “tono pacato e problematico” della buona cultura si potessero nascondere “i fumi della battaglia”, né che le parole sapientemente miscelate di ragionamenti contraddittori di un intellettuale, potessero colpire più a fondo, e in modo più insidioso, della rabbia che si esprime nello “scontro” e nelle “scalmane di piazza”.

L’editoriale di Claudio Magris, uscito sul Corriere della sera (19.2.08) su “Bobbio e l’aborto”, fa quasi rimpiangere l’ira scomposta di Giuliano Ferrara, il giustiziere di Dio che spera di portare in parlamento un drappello di crociati contro le madri “assassine”.
I paladini dei “figli non nati” devono essere davvero a corto di argomenti se sentono il bisogno di aggrapparsi ai ‘padri nobili’ della nazione  -il richiamo a Bobbio era già stato fatto tempo fa sul Foglio di Ferrara-, se devono ricorrere, per conculcare diritti e libertà delle donne ai grandi ‘maestri’ della democrazia.

Ma è proprio la cordata degli ‘onesti’ pensatori ‘laici’, atei senza “tracotanza”, “rispettosi della fede”  -più ancora che i poco credibili “atei devoti”-, a rivelare la misoginia profonda di una cultura maschile che si ripresenta quasi inalterata sia nelle posizioni dei laici che in quella del cattolicesimo più integralista. La “difesa del concepito”, del “diritto a nascere”, così come l’accostamento tra aborto e pena di morte, compaiono già nell’intervista di Bobbio al Corriere della sera del maggio 1981, quindi molto prima che si arrivasse all’art.1 della Legge 40, sulla personalità giuridica dell’embrione, alla campagna sulla “moratoria dell’aborto” di Ferrara, e agli interventi della Chiesa sulla Legge 194.
Se la “pacatezza e il disagio” di Bobbio, che mancano a Ferrara, esultante di felicità per la sua ‘missione’, sembrano all’apparenza dar testimonianza che è possibile, come si augura Magris, “creare una cultura consapevole della realtà dell’aborto”, il giudizio che emerge da quella intervista è sotto certi aspetti molto più violento.
Violento è, innanzitutto, che gli uomini possano mettersi “a guardare in faccia l’aborto”, e non la donna che ne è protagonista, che parlino di un “conflitto di diritti e doveri”, quando il vero conflitto, quello che sta monte di ogni legge, è il rapporto di potere tra i sessi.
Violento è che si ergano a difesa dei “valori della maternità e della vita”, senza dire di quanti stupri, quante maternità non volute, quante morti per aborto o per parto, è stata causa la sessualità maschile, un potere fecondante scambiato per ‘potenza virile’, un atto d’amore trasformato in prova di forza, di controllo e di dominio.
Di “consapevolezza” qui se ne vede ben poca, e di “originalità” ancora meno, se l’annaspare in difesa della vita “non nata”  -con la preoccupazione evidente di separare fin dal principio la sorte del figlio dalle decisioni della madre, di garantirsi una nascita fuori dalla pericolosa indistinzione col corpo di lei- è un muoversi tra affermazioni contraddittorie, tra colpi ben assestati e cautele, tra “imperativi categorici” e concessioni alla parte avversa.

Cosa significa che “si può parlare di depenalizzazione dell’aborto” –stando alle parole di Bobbio- o affermare, come fa Magris, che “si cerca di non toccare la 194”, e poi aggiungere che di fronte all’aborto “non si può essere moralmente indifferenti”, un eufemismo per dire, come poi precisano entrambi, che “il diritto fondamentale è quello del concepito a nascere”, che con l’aborto “si dispone di una vita altrui”, e che è un “onore” sostenere che “non si deve uccidere”? Ferrara, in modo più esplicito, parla di “omicidio perfetto” e di “assassine”.
Qui invece il soggetto, al centro di una dotta disputa su “diritti e doveri”, è prudentemente taciuto. Che si stia parlando prima di tutto di una donna, e della storia millenaria di violenze che è passata sulla sua ‘vita-non vita’, perché mai considerata ‘persona’, ma solo ‘risorsa’ da sfruttare o sogno infantile di paradisi perduti, su un corpo costretto, proprio per la sua capacità biologica di far figli a incarnare per sempre la finitezza del destino naturale degli umani, di questa storia i ‘maestri’ della ‘città dell’uomo’ non parlano.
Non sanno, non vogliono, o sono ottenebrati dal “privilegio” di aver avuto da sempre le donne ‘per sé’,  disponibili tra le mura di casa, attente ai loro bisogni come alla loro felicità.

In una intervista rilasciata qualche anno prima della sua morte, Bobbio, abbandonato il tono solenne del “maestro di diritti e libertà”, era di questa dedizione femminile, conforto ai mali e alla solitudine della vecchiaia, che parlava, elogiando le donne della sua famiglia.
Tanto fervore da parte maschile sui “valori della maternità” lascia il sospetto, sempre più manifesto, che, a inquietarli fino a una dichiarazione aperta di guerra psicologica e politica, siano la ‘nascita’ delle donne come persone  -e non funzioni riproduttive, lavoratrici domestiche senza compenso, ‘curatrici’ di bisogni e affetti-, e la libertà con cui stanno svincolando i loro corpi, la loro vita psichica e intellettuale dalle gabbie entro cui sono riuscite, nonostante tutto, a  sopravvivere.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 20 febbraio 2008


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