Caro Piero

di Lea Melandri


Jessie Boswell 1929

Caro Piero,

sembra che tutti, in questo tempo di confuse trasmutazioni, abbiano un unico desiderio: buttare a mare chi intralcia le proprie convinzioni, chi insidia le proprie fragili sicurezze, o chi semplicemente sembra sbarrare la strada a un cambiamento ritenuto necessario. Non nego, anche perché lo vado ripetendo da anni, che i partiti di sinistra soffrano, e non da ora, di un declino senza rimedio e che solo quando si decanterà l’illusione di una loro potenziale ‘rinascita’, anche i movimenti, i gruppi di azione sociale –che in Italia ci sono e sono tanti- smetteranno di trasferire su di essi una qualche forma di rappresentanza.
Ma quando si auspica uno scarto, una discontinuità così radicale, bisognerebbe che l’ ‘altrove’ verso cui si dirige lo sguardo, l’ ‘altro’ interlocutore che si vorrebbe accanto a sé, fosse quanto meno all’orizzonte. Per essere sincera, stando ai tuoi editoriali di questi primi giorni di uscita del giornale, quello che si profila su uno spazio che si vorrebbe “apertissimo a tutte le idee”, è solo il deserto.
Fatta piazza pulita di tutte le sinistre riformiste e radicali, liquidate come “conformiste”, subalterne, sia pure in modo diverso, al berlusconismo, ammainate le bandiere di tutti i partiti, destra compresa, insieme alle identità che vi si sono incrostate, l’ospite atteso resta, in realtà, molto generico. Occorre, tu dici, una “sinistra vera, sveglia e pensante”, ma come possiamo riconoscerla dal momento che ogni più piccolo frammento, ogni frazioncina di quell’arcipelago che va ancora sotto il nome di sinistra, pensa di esserlo, e mena colpi all’impazzata perché altri riconosca che lo è? L’aggrappamento narcisista a un Io o a un Noi, che in passato ha avuto solide radici sociali, frutto di laborioso pensiero e lavoro collettivo, non si abbandona con facilità, e se buttando per così dire il bambino con l’acqua sporca, ci si libera immediatamente della “noia” di linguaggi e rituali consumati, non per questo si può essere certi che non ricompaiono sotto altre forme.
Lo stesso discorso vale per il berlusconismo diffuso, un virus che non lascia molti spazi incontaminati, ma che tu escludi a priori possa intaccare il tuo giornale.

La subalternità a una visione del mondo non è solo l’esito di rapporti di forza, la crisi che stiamo attraversando non è solo economica, ma non è neppure solo, come tu dici, una “crisi sociale”, i cui rimedi sarebbero “politiche sociali perequative”, ripensamento del welfare, moderazione dei profitti, controllo del mercato, cambiamento dei rapporto tra ceti, classi e nazioni.

Anche su questo non vedo la sinistra “sovversiva” che dovrebbe  prendere il posto di quella esistente. Mi sembrano posizioni in buona parte condivise, ma soprattutto circoscritte ancora una volta a un’idea di economia e di società ritagliate sull’idea tradizionale della pòlis, da cui restano esclusi non a caso il rapporto tra i sessi, tra l’umano e la natura, tra produzione e riproduzione della vita nella sua interezza.
Nominati come compagni di viaggio, nella costruzione di un’idea di società e di mondo capace di “spostare l’opinione pubblica”, il femminismo, l’ambientalismo, i movimenti libertari, risultano inspiegabilmente assenti dal quadro che vai delineando, passata in ombra la rivoluzione culturale e politica che essi hanno rappresentato, rispetto a separazioni e dicotomie note: tra femminile e maschile, biologia e storia, privato e pubblico, individuo e società.
Come si può pensare di “mettere in moto una macchina del tutto nuova”, riprendendo valori come “libertà”, “uguaglianza”, “fratellanza”, senza neanche dire che, in un passato molto più vicino a noi della rivoluzione francese, quegli stessi termini sono stati rivisitati e ripensati da soggetti e movimenti imprevisti –come la dissidenza giovanile del ’68 e il femminismo-, a partire da quella ‘illibertà’ che passa inosservata nei corpi, nella sessualità, nelle fantasie, nelle vite di uomini e donne, adulti e bambini, indigeni e stranieri, nascosta dietro una rappresentazione di fratellanza, e quindi di convivenza umana, costruita in loro assenza?

Lo slogan “il personale è politico” è ricomparso in questi giorni nel dibattito sulla vicenda Berlusconi-Lario, e rischia ora di spegnersi nella curiosità morbosa che hanno sempre suscitato i fatti privati dei potenti. Per te, da quel che capisco, la questione sollevata da Veronica Lario  - che non è tanto il divorzio ma lo smascheramento dello scambio sessuo-economico che il potere maschile intrattiene da sempre con le donne, ‘sante’ e ‘puttane’, sarebbe così estranea alla politica da risultare “incommensurabile” rispetto ad accadimenti di ben altra gravità, come la legge voluta dalla Lega sull’immigrazione.
Concordo con Angela Azzaro sull’ipocrisia di chi oggi difende la dignità offesa delle donne, “sparando sulle veline”, dopo averla finora ignorata, ma non si può ridurre a “scandalo”, a “clamore” una vicenda che mette a nudo, attraverso un caso eclatante di personalizzazione della politica, forme di sessismo antiche come il mondo, evidenti e tuttavia mai riconosciute. Pensare che sia un ‘privato’ da lasciare nelle case vuol dire non tenere in nessun conto il rivolgimento profondo di categorie politiche note che è stata la ridefinizione della sfera personale, sulla base della storia, naturalizzata o resa insignficante, che si porta dentro.

Per combattere il “berlusconismo involontario” che si annida negli angoli più insospettabili del popolo italiano, come dei suoi rappresentanti, non basta denunciare subalternità e complementarietà, un gioco al massacro che non lascia nessuno indenne.
Bisogna sottrarre all’antipolitica, che Berlusconi incarna in modo ineguagliabile, il fascino o la cattura facile che vengono dall’essere ancora, purtroppo, l’unica risposta  -per quanto alienata e devastante- alla crisi della politica tradizionalmente intesa, l’unico modello visibile a tutti di un suo possibile ripensamento, volto a integrare e assorbire tutto quella parte dell’umano che escluso.

Almeno finché qualcuno non riuscirà a capire che il primo “Altro” da riconoscere in sé è la maschera che uomini e donne sono costretti a portare da secoli, che il sessismo è la radice più interrata del razzismo e dello sfruttamento di classe, che o si riesce a ripensarli insieme, per i legami che hanno, o la politica resterà sempre e comunque subalterna al più gigantesco dei luoghi comuni.

 

22-05-2009

questo articolo è apparso su "L'altro" cartaceo

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