Politiche familiari e patriarcato
di Lea Melandri

Pieve S.
Giustina di Monselice, XIX sec.
Il Family day, la
manifestazione che il 12 maggio 2007 a Roma in piazza S.Giovanni ha alzato
il vessillo della famiglia tradizionale, rientra, sotto certi aspetti, nei
riti con cui le società da tempo immemorabile hanno creduto di poter
negare e affermare al medesimo tempo la morte di istituzioni e valori
ritenuti indispensabili alla loro sopravvivenza.
La ‘sacra famiglia’, che inchieste, dati statistici dicono in via di
sparizione, può contare oggi solo sui fasti e la retorica celebrativa
riservata agli antenati, ma proprio per questo temibile, quanto lo è stato
dopo la prima guerra mondiale l’immagine di una patria minacciata, morta o
in pericolo di morte.
La decisione di Rosy Bindi di non invitare alla Conferenza di Firenze del
24 maggio sulla famiglia le associazioni degli omosessuali -discutibile
anche dal punto di vista giuridico, come ha scritto Cesare Salvi, in
quanto si tratta di decidere misure sociali già previste per tutte le
forme di convivenza- può essere letta sotto lo stesso profilo:
accanimento terapeutico su un malato senza speranza, o rianimazione
miracolistica.
E’ anche vero,
tuttavia, che Rosy Bindi persegue con questa scelta un progetto politico
già indicato con ampiezza di argomenti nella sua audizione alla
Commissione Affari Sociali del 18.7.06: “armonizzare” diritti della
persona e della famiglia, tenendoli però ben distinti, in modo che non
confliggano, non mostrino dissonanze; riconoscere alla famiglia “naturale”
legittimata dall’articolo 29 della Costituzione sulla base del matrimonio,
quella “superiore dignità” che la pone al centro di diritti e tutele da
parte dello Stato, “risorsa” e “bene” primo per lo sviluppo e la coesione
sociale a cui rendere giustizia con politiche mirate.
“Soggetto attivo di cittadinanza e welfare” deve diventare, non il
singolo, uomo e donna, ma l’entità sociale, giuridica, economica,
mescolanza di “interessi e emozioni”, che lo comprende e lo supera. “La
famiglia -scrive Bindi- non può essere nemica delle persone e dei loro
diritti”, un’affermazione mossa da una visione idealistica che sembra non
voler fare i conti con verità risapute, esperienze comuni a popoli e
civiltà diverse.
“La famiglia
-annotava Freud quasi un secolo fa- non vuole lasciare libero l’individuo.
Quanto maggiore è la coesione dei suoi membri, tanto più essi tendono a
segregarsi dagli altri e diviene loro difficile entrare nel cerchio più
vasto della vita”.
Oggi, dentro un processo, riconosciuto da Rosy Bindi stessa, di
‘de-istituzionalizzazione’ dell’unità famliare -aumento di divorzi e
separazioni, denatalità, nuclei monoparentali, ecc.- le “logiche
individuali” stanno decisamente prendendo il sopravvento, la “pienezza
della vita” -come si legge nel libro di
Roberto Volpi, La fine della famiglia (Mondadori 2007)-
, che prima si realizzava “attraverso e grazie ai figli”, viene dirottata
verso “altre cose, altre opportunità e soddisfazioni”.
Per chi rimpiange le
antiche virtù di un ‘ordine’ che la storia avrebbe ereditato dalla natura
e dalla trascendente volontà di un dio, il profilarsi di un nuovo
fondamento della comunità umana non può non destare allarme e inasprire la
condanna di scelte, comportamenti, ritenuti lesivi di verità morali “non
negoziabili”.
A un pensiero secolarizzato, al contrario, non dovrebbe essere né
imprevista né estranea la centralità che va assumendo l’individuo - suoi
diritti, le sue libertà-, anche se insidiata dalle derive di una società
sempre più atomizzata e conformista.
Eppure, di fronte all’onda montante di nostalgici, imperiosi richiami alla
famiglia tradizionale, anche le forze laiche esitano, si contraddicono, si
perdono in distinzioni bizantine, si sottraggono soprattutto a un’analisi
della famiglia per quello che è stata storicamente: unità proprietaria,
strutturazione dei poteri che hanno opposto un sesso all’altro e
consegnato la donna al ruolo biologico di riproduttrice della specie.
Giustamente Roberta Fantozzi vede nel sempre più insistente riferimento
alla famiglia “la riproposizione di un’idea prescrittiva e regressiva
delle relazioni sociali, che nega l’affermazione di percorsi di libertà e
di autonomia delle persone” e mira a riscrivere in senso familistico lo
stato sociale, mentre continua l’occultamento della divisione sessuata del
lavoro (www.differenzaingioco.it).
Forse è venuto
davvero il momento in cui è possibile allacciare alcuni di quei fili che
pratiche politiche diverse hanno sdipanato nel corso degli anni e,
mescolando saperi astrattamente contrapposti, scoprire che si possono
intraprendere percorsi comuni.
La famiglia, considerata la cellula prima della vita sociale e in linea di
armoniosa continuità con essa, è tale solo se la si guarda dall’esterno,
dal punto di vista di una verità che si fa discendere dall’alto, o di una
politica che si è separata dalla vita dei singoli tanto da non saperla più
interpretare.
Se è vero che per tanto tempo, come dice Bindi, “ci si è serviti della
famiglia come sussidio a responsabilità sociali pubbliche”, e che a questa
ingiustizia va posto rimedio, vuol dire che un’ostilità c’è stata tra
sfera privata e sfera pubblica, e di conseguenza tra i sessi che ne hanno
ricoperto oneri, funzioni e valori. Di quel ‘bene’ misconosciuto che è
l’unità familiare si dice che va “valorizzato” e “tutelato”, dandogli
innanzi tutto “cittadinanza”.
In termini analoghi si è sempre parlato dell’esclusione-inclusione delle
donne nella vita pubblica, del loro difficile sforzo di conciliare casa e
lavoro.
Finché il soggetto di riferimento resta la famiglia, è chiaro anche quali
sono i protagonisti che dovrebbero collaborare attivamente allo sviluppo
della società: è innanzi tutto la coppia madre-figlio, unità biologica
nell’esperienza della nascita divenuta destino per l’esistenza femminile;
ma è anche la coppia genitoriale: non un uomo e una donna, ma un padre e
una madre.
Sparisce, nel quadro di una brutale naturalizzazione della storia,
l’individualità femminile, la possibilità per la donna di realizzarsi come
persona, né solo corpo né solo mente, ma precipita in questo occultamento
anche l’idea di individuo, confusa e appiattita sulla maschera di un
ruolo, sulla fissità di un copione.
Mettere al centro i
diritti e la libertà del singolo, e da lì ripensare le formazioni sociali
che ne garantiscono la sopravvivenza e lo sviluppo, vuol dire perciò
affrontare in tutte le sue conseguenze e connessioni un dominio
patriarcale che oggi si presenta col volto aggressivo dell’integralismo
religioso, ma che ha a che fare con l’origine stessa del genere umano, con
il suo tormentato percorso di amori e odi, conservazione e distruttività.
Identificare la donna con la madre ha significato prolungare indebitamente
l’infanzia, fare dell’appartenenza intima a un altro essere il vincolo
che, se per un verso illude il desiderio d’amore, la ricerca di protezione
contro il dolore e la morte, per l’altro strangola sul nascere ogni
legittima spinta di libertà del singolo, maschio e femmina.
Sarebbe un grave errore se, parlando della centralità della ‘persona’
contro il montante familismo, si tornasse a prospettarsela neutra e
scorporata.
questo articolo è apparso su
Liberazione
del 20 maggio 2007
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