Quando “lei” non è più lì

Lea Melandri

 

C’è una singolare consonanza tra la lettera che Marguerite Monclair scriveva nel lontano 1913 all’amica Sibilla Aleramo, e le dichiarazioni di Pascal Bruckner, riportate da Il Foglio, a proposito del suo ultimo saggio, Il matrimonio d’amore ha fallito? (Guanda 2011):

“E’ un sogno che voi perseguite! Un sogno irrealizzabile mia cara Sibilla! Un sogno che voi avete avuto l’illusione di mutare in realtà, già più volte, e che s’è evaporato come una bolla di sapone. Il tempo della passione non dura. Non potrebbe durare. E’ uno stato di febbre, unicamente perché il “figlio” venga. Poi, che il figlio venga o no, è il periodo del nido, della costruzione del nido. E dopo, arriva “l’abitudine” e l’affetto profondo, e la tenerezza devota, sostituiscono la passione”.
“Il matrimonio d’amore è in crisi perché fondandosi sulla passione è condannato a non durare. Il sogno d’amore è la fusione dei cuori, eppure il cuore oggi è volubile, come lo sono i corpi”.

Anche il rimedio suggerito da Bruckner  -dare voce alla ragione, stringere una sorta di alleanza in nome della tenerezza e dell’amicizia, della cura dei figli e della tutela del patrimonio- non è molto diverso da quello con cui Marguerite si augura di sottrarre Sibilla alle “spine del sentimentalismo”: “E poi, se poteste rinunciare alla passione, trovereste, forse, un buono e dolce affetto che basterebbe ad assicurare la calma alla vostra vita, e vi permetterebbe  di consacrarvi tutta alle vostre opere, così belle!”

L’eternità che promette l’innamorato e la durata per la vita che sigilla l’istituzione del matrimonio appartengono a dimensioni diverse, per non dire opposte, del tempo. L’illusione che Io e Tu possano diventare una cosa sola, l’amore inteso come fusione assoluta al di sopra di ogni differenza, si può pensare che siano imparentati con l’esperienza dell’originaria in distinzione col corpo della madre.
Sulla continuità tra la memoria di una “beatitudine” perduta, o solo fantasticata, dell’infanzia e la nostalgia che la ripropone nel rapporto con una moglie o un’amante, l’uomo-figlio ha costruito “il modello di ogni felicità”, il riparo ai troppi dolori, disagi, compiti insolubili che vengono dal vivere sociale. Il doppio ideale che vive nell’anima degli innamorati è perciò il precipitato di un tempo di cui non si vede l’inizio e che per questo è destinato a oscillare affannosamente tra mistero e conoscenza, silenzio e parola, sentimento e ragione.
Nel momento in cui il matrimonio non è più soltanto di interesse e coinvolge “corpi e cuori”, vengono meno i confini che hanno tenuto così a lungo separati e contrapposti infanzia e storia, sogno e realtà, bisogni e desideri, necessità e piacere. Ma, soprattutto, diventa chiaro che l’amore non sfugge alla “guerra tra i sessi”, non è la “tregua miracolosa”, lo stato di fusione in cui “due esseri possono perdersi senza perdersi” e persino, come dice Pierre Bourdieu, uscire dall’alternativa tra egoismo e altruismo, tra soggetto e oggetto.
Nel luogo dove è atteso un armonioso ricongiungimento tra le nature diverse e complementari dell’uomo e della donna, compaiono imprevedibili “il disincanto, la discordia, i divorzi”. E’ abbastanza sorprendente che anche chi come Bruckner ha colto la centralità dell’amore, come passione, esaltazione immaginativa dell’altro, nella crisi che attraversa oggi la coppia, la famiglia, il vincolo coniugale, non si sia chiesto quanto i cuori e i corpi, il sentimento e la sessualità, portino i segni di un rapporto tra i sessi che, arrivato tardivamente alla coscienza storica, sta producendo rapidi e inaspettati cambiamenti.

La favola amorosa, nella versione che ne hanno dato la letteratura ottocentesca e pensatori di grande successo presso il pubblico femminile, come Jules Michelet e Paolo Mantegazza, poteva contare sull’illusoria “reciprocità” del maschile e del femminile, visti come “nature” complementari, mosse di necessità verso il ricongiungimento in un unico essere armonioso e perfetto.
Il passaggio dalle acque incantate, dove “due navi solitarie” vengono spinte da un “fremito di simpatia” l’una vicino all’altra senza conoscersi, al cammino che poi dovranno fare insieme, così come è descritto da Mantegazza nella Fisiologia dell’amore (1879), non lascia dubbi sull’intreccio tra sentimenti e potere, tra “sacralità” e svilimento della donna.

“Angelo ieri, ella si lascia strappare le ali dall’amante e ridiventa donna, per essere moglie, amico, madre. Sacerdotessa di un tempio, brucia sull’altare dell’amore la veste candida della vestale e dice e grida singhiozzando di gioia e di dolore: “Son tua, son tutta tua, ho tarpato le mie ali, perché tu mi innalzi sui vanni del tuo genio; ho rinnegato la religione dei miei sogni, per non essere che la tua compagna.”

Ma è Michelet, nel libro ispirato dal matrimonio con la giovane ventenne Athenais Mialaret nel 1849  -“un libro vivente”- a dare un quadro involontariamente più realistico dell’amore famigliare e coniugale. Dopo aver detto che il matrimonio moderno differisce, in quanto “fusione di anime”, da quello del passato, che era solo un mezzo per generare  -la donna un corpo da cui si pretendeva molto sangue-, fa seguire pagine rivelatrici sul destino riservato all’anima femminile appena comparsa sulla scena della storia.

“E’ per loro una sensualità amorosa il fatto di obbedire, di sentirsi possedute da qualcuno che le circondi con la sua forza benevolmente e che talvolta faccia sentire, con dolcezza, un po’ di pungolo (…) Una cosa incantevole a vedersi è la delicatezza infinita della giovane moglie che, in una stanza stretta, va e viene, gira intorno all’uomo di studio senza mai disturbarlo. Un’altra persona l’avrebbe frastornato; “Lei non è una persona”, così dice il marito. In effetti, è come fosse lui, la sua seconda anima, la migliore. Lei trattiene il respiro e cammina in punta di piedi. Lieve, sfiora il pavimento. La sua elettricità seducente, quando passa e il suo vestito vi sfiora appena, credete che non conti per l’artista e lo scrittore? Tutto ciò innamora la mia opera, che avrà la sua grazia. Tra mille anni diranno: “Quest’opera, viva e tenera, brucia ancora. Per forza, lei era lì”.

I cambiamento prodotti da un secolo di emancipazione femminile non devono avere ancora inciso a fondo nel legame che sopravvive inconsciamente tra la favola amorosa e la complementarietà dei ruoli, tra la dedizione di sé all’altro e il potere che viene dal rendersi indispensabili, se nel libro di André Gorz, Lettera a D. Storia di un amore (Sellerio, Palermo 2008), leggiamo: “Sapevi, fin dall’inizio, che avresti dovuto proteggere indefinitamente il mio progetto (…) Eravamo complementari (…) “scrivi”, ripetevi, come se la tua vocazione fosse di confortarmi nella mia (…) Non posso immaginarmi a scrivere se tu non ci sei più. Tu sei l’essenziale”. A chiusura del ritratto di un perfetto, riuscito matrimonio d’amore, colpisce il commento tenero e al medesimo tempo disincantato, della moglie, Dorine: “ Lei era solo la modella, il pittore era lui”.

L’aumento delle separazioni, dei divorzi, delle donne che scelgono di vivere sole o di crescere da sole un figlio, per evitare la fatica di doversi accollare anche la cura di un marito-bambino, così come la scelta di forme meno vincolanti di convivenza, nascono sicuramente da una percezione più spiccata di sé come individuo, dall’incompatibilità tra la famiglia tradizionale e la libertà del singolo. Ma la sponda che è venuta a mancare, senza  possibilità di ritorno, è quella offerta dalla presenza, essenziale e invisibile, della donna a fianco dell’uomo: figura ambigua di serva padrona, di figlia e madre, carne e spirito, che ora, dopo essersi legittimata a vivere per sé, non abita più lì dove l’hanno messa e dove ancora vorrebbero ritrovarla. La favola dell’unione perfetta non si è del tutto eclissata, ma ha ormai occhi per guardare dentro il mistero che ha stretto insieme inspiegabilmente amore e dominio.

 

anche in Gli altri del 24-06-2011

 

26-06-2011

 

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