La madre: il primo e l’ultimo tabù
di Lea Melandri


C’è solo da sperare che alla traduzione italiana del libro di Elisabeth Badinter, Le conflit. La femme e la mère (ed. Flammarion), faccia seguito un dibattito altrettanto vivace di quello che ne ha accompagnato l’uscita sui giornali francesi. Ma è meglio non contarci troppo.
L’intervista all’autrice, comparsa su D La Repubblica (13.2.2010), non sembra aver avuto l’effetto provocatorio che ci si poteva aspettare, così come del resto è passata sotto silenzio la raccolta di interviste a “donne speciali”, Perché non abbiamo avuto figli (ed. Franco Angeli 2009), curata da Ferdinanda Vigliani e Paola Leonardi. Eppure il problema, che oggi si impone a partire dalla persistente marginalità che le donne incontrano nel mondo del lavoro, e dalla fatica di dover essere al medesimo tempo brave madri e brave professioniste, non è nuovo per la coscienza femminile e tanto meno per la retorica maternalista che ha fatto dell’anatomia femminile un destino.

Nel 1906 fu il libro autobiografico di Sibilla Aleramo, Una donna, a dar voce al conflitto che l’avrebbe portata alla scelta ‘scandalosa’ di lasciare il marito e il figlio: “In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata…in me la madre non s’integrava nella donna. Mancava a me la volontà continua della vera educatrice…non potevo assorbirmi intera nella considerazione dei suoi bisogni, prevenirli, soddisfarli…che miserabile ero dunque se non riuscivo, una volta accettato il sacrificio della mia individualità, a dimenticare me stessa, a riportare integre le mie energie su quella individualità che mi si formava a lato?”.

Che la donna non dovesse mai aver bisogno di affermare la sua individualità, che fosse destinata a “vivere per gli altri”, “amare e partorire”, e che questo sacrificio di sé facesse di lei una “religione”, era stato il massimo tributo che pensatori del secolo precedente, come Michelet, Bachofen, Mantegazza, avevano creduto di fare alla “differenza” femminile. “La donna madre è la donna completa: la donna giovane, bella, ricca non è né può essere felice se in lei non palpita la maternità. La donna che non è madre è l’eunuco del proprio sesso, e l’intricato meccanismo della nostra società civile fabbrica purtroppo ogni giorno a mille di queste mutilate”.
Con la messa a tema di un conflitto ancora più provocatorio – La donna clitoridea e la donna vaginale, di Carla Lonzi- all’inizio degli anni ’70 comincia la stagione di un femminismo radicale che avrebbe terremotato ruoli tradizionali, certezze identitarie, equilibri tra natura e storia, famiglia e società, individuo e collettivo, sopravvissuti a cambiamenti secolari. “La coppia patriarcale è la coppia pene-vagina, marito e moglie, padre e madre della cultura animale procreativa: il loro rapporto non è stato determinato in base al funzionamento del sesso, ma a quello della procreazione a cui il sesso femminile è stato subordinato. La donna vaginale è il portato di questa cultura: è la donna del patriarca e la sede di ogni mito materno”:

Evidentemente, separare la sessualità dalla procreazione, legittimare l’aborto, scrollarsi di dosso le tante illibertà di cui hanno sofferto le donne, a partire dalla cancellazione di esistenza propria, non è bastato a scalfire il carattere fondativo dell’identità femminile, che ancora viene attribuito all’essere madre. Nel momento in cui il femminismo si è trovato ad affrontare la presenza femminile nella sfera pubblica, il dilemma uguaglianza-differenza, costruito sulla complementarietà e gerarchia dei “generi”, è tornato in auge in modo acritico, per cui è difficile dire se è la ripetizione del già noto o una ripresa aperta a nuove soluzioni.
Non è un caso che sia oggi la componente del femminismo legata al “pensiero della differenza” a vedere nuove figure femminili sia nelle mogli e nelle escort che mettono a nudo uomini potenti, sia  nella donna madre e lavoratrice considerata l’unico soggetto che tiene insieme la vita nella sua “interezza”.
Dall’ aut-aut, che costringe ad assimilarsi all’uomo o ad attestarsi sulla complementarietà, si passa all’ et-et, cioè a una unione ideale che altro non è che il ricongiungimento delle “nature diverse” attribuite tradizionalmente al maschile e al femminile. Se le “due parti fondamentali di sé” che non possono restare separate sono “la realizzazione di sé nella maternità e la realizzazione di sé nella professione” (Marina Piazza, Attacco alla maternità, Nuovadimensione, 2009)–e non, come ci si aspetterebbe, il corpo e il pensiero, una completezza dell’umano che l’uomo ha riservato solo al suo sesso-, il motivo è chiaro: “Quando diciamo sì alla maternità diamo forma a un desiderio inscritto nel nostro corpo e nella nostra mente. Un desiderio che, quando viene messo liberamente in atto, porta con sé la necessità e il piacere, anche fisico, di stare vicino al bambino. Non solo quando è piccolo, ma a intermittenza, anche in altre fasi di crescita. La paternità si inscrive diversamente”. (Immagina che il lavoro, Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano, 2009).

A una logica contrappositiva resta legata in qualche modo anche Badinter, quando afferma che per sfuggire a quella che è stata finora l’essenza della femminilità c’è un’unica scappatoia: non fare figli. Ma le va riconosciuto sicuramente il merito di aver riportato ancora una volta l’attenzione sull’ “ambito domestico”, su quel nodo cruciale della vicenda dei sessi che è stata all’origine e che continua ad essere la maternità, un potere che l’uomo ha invidiato e sottomesso, confinandolo nella natura, e che le donne sono oggi tentate di rivendicare come “un vero e proprio gesto di libertà”, un potere e un valore da far riconoscere. Non c’è da stupirsi se nella nuova generazione alcune vedono la loro sfida nel “doppio sì”, e altre, al contrario, nel dire “no, non madri a queste condizioni”.

“ Perché dovrei essere madre per forza? Per il solo fatto di essere donna? C’è un gusto selvaggio nel dire no. C’è piacere nel dire: che le mie mani restino libere da vincoli. Ho troppo da dare al mondo, per poter dare a uno soltanto. Ho bisogno di stare con me stessa, ora e qui su questo mondo. Non voglio essere due solo perché si deve. Pare che, quando l’occupazione principale di una donna non sia quella di madre ma di cittadina, c’è sempre qualcuno che si preoccupa di metterla al suo posto” (Eleonora Cirant). Stretta tra il sacro e il naturale, la madre è il primo e l’ultimo tabù della cultura maschile dominante, e, per le donne, l’esperienza che rischia di vederle divise. Oppure - perché no?- l’inizio di un movimento capace di spingersi più a fondo nell’analisi del rapporto tra i sessi.

 

apparso sul settimanale Gli altri del 26 febbraio 2010

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