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      La costruzione patriarcale della “razza” 
      di Lea Melandri 
      
         
      
      Charlotte Salomon 
      
      La sentenza del 
      giudice di Hannover, che ha concesso a un imputato per violenza sessuale 
      l’attenuante “culturale ed etnica” relativa alla sua origine sarda, ha 
      fatto giustamente parlare di razzismo e di sessismo, ma ha lasciato 
      aperto, non indagato, il sottile, ambiguo legame con cui si essi 
      presentano oggi sulla scena pubblica, politica e mediatica.  
      In alcuni casi, per allontanare dal proprio popolo –Stato o regione- 
      l’ombra di una “differenza culturale” infamante, si è finito per far 
      sparire la benché minima traccia  di residui patriarcali. “In Sardegna –ha 
      detto lo scrittore
      
      Salvatore Niffoi- da sempre regna il matriarcato, il simbolo stesso 
      della Sardegna è la madre terra, la fertilità, la potenza femminile”. Per 
      rafforzare la sua tesi, ha portato l’esempio della moglie, estremamente 
      attenta alla sua creatività letteraria  -“la mia prima lettrice”-, 
      confermando inconsapevolmente l’ambiguità di un potere femminile basato 
      sulla dedizione all’altro.  
      Un giudizio ancora più deciso  nel proclamare l’innocenza del maschio, in 
      ogni paese europeo, è stato quello di Francesco Merlo (Repubblica 
      12.10.07): “Tutti noi cittadini d’Europa veniamo da una cultura contadina 
      dove la donna era condannata a stare in casa alla canocchia, per diventare 
      a sera macchina di riproduzione. Ma ci siamo liberati di quel feroce 
      passato, sepolto anche nel nostro Sud insieme al mito arcaico dell’onore e 
      del disonore, della virilità, che era valore è vero, ma solo perché non 
      c’era ancora lo spazio per coltivare altri valori, di civiltà, come la 
      cortesia, la dolcezza, la cultura, il pudore, la fragilità, insomma quella 
      gentilezza dei costumi maschili che oggi prevale dappertutto, anche in 
      Sardegna. La donna italiana, intelligente e libera come quella tedesca, in 
      Piemonte come in Calabria, non è oltraggiata dalla cultura”.  
      
      Non so in quale 
      nuovo Eden viva Francesco Merlo, o se ad accecarlo sullo stato attuale del 
      rapporto tra i sessi sia stato l’affiorare alla memoria delle tragiche 
      “discriminazioni” che hanno segnato la storia del ‘900.  
      Una volta chiarito che non esistono “tipologie nazionali”, e che l’ 
      “etnia” è  una costruzione immaginaria, messa a copertura di rapporti di 
      potere, interessi economici e relazioni sociali, è importante che si dica 
      che significato si da oggi a questo termine, che uso si fa del concetto di 
      “differenza” quando si parla di una società “multiculturale”.  
      A conclusione di una lunga ricerca sul pensiero razzista, così come si 
      manifesta nei bambini e nel senso comune, confluita poi nel libro 
      
      La pelle giusta (Einaudi 1997), l’antropologa Paola Tabet scrive: 
      “Nei termini etnia e cultura sono trasfusi i significati di razza…Con 
      l’arrivo in Italia degli immigrati del ‘terzo mondo’ il discorso razzista 
      diventa quotidiano, invadente, circola veloce, pressoché dovunque, in una 
      forma o nell’altra, come discorso della gente o dei media…La ‘razza’, 
      questa categoria scientificamente immaginaria, ma socialmente reale e 
      mortifera, è ciò che sta sullo sfondo delle emozioni e rappresentazioni di 
      questi bambini”. Nella percezione di uno ‘straniero’ minaccioso 
      confluiscono segni lasciati da un passato storico  -la schiavitù, il 
      colonialismo-, ma soprattutto l’immagine che si va costruendo di un “terzo 
      mondo” che oggi, come dice Tabet, è interno, “a domicilio”, e di cui il 
      “nero” è solo il diverso per eccellenza, la “cristallizzazione dell’alterità”. 
      
      Nel magma sempre più 
      confuso, in cui vanno a confluire criminalità, disagio sociale, 
      insicurezza, i “soggetti minacciosi” si moltiplicano e, nel medesimo 
      tempo, subiscono una, sia pure meno evidente, riduzione a un unico, 
      omogeneo tratto distintivo: sono, di volta in volta, gli scippatori, le 
      prostitute, i lavavetri, i parcheggiatori abusivi, i mendicanti, i writers, 
      i presunti terroristi nascosti nelle moschee, le donne col burqa, gli 
      zingari; ma sono anche le molte facce di quella umanità inferiore, non 
      propriamente umana, che si ripresenta in ogni epoca e in ogni società come 
      un residuo da tenere a bada o da eliminare.  
      Oggi, “vite di scarto” sono quelle del povero, del vagabondo, del migrante 
      visto come miserabile e spesso come delinquente, una presenza “selvaggia” 
      che semina paura, fastidio, odio, per le strade della ‘civile’ Europa. In 
      questa schiera di indesiderati, da cui molti vorrebbero vedere ripulite le 
      nostre città, entrano di tanto in tanto gli stupratori, soprattutto se 
      stranieri.  
      Benché le cronache dimostrino quotidianamente che stupri e omicidi di 
      donne avvengono per la maggior parte dei casi in famiglia, che il 
      ‘perturbante’ emerge imprevisto dalla ‘normalità’, che con la stessa mano 
      si può accarezzare e uccidere, la violenza che un sesso fa all’altro 
      stenta ancora a essere nominata come tale: la forma più manifesta e più 
      orribile di un potere ‘sovrano’ che l’uomo si è arrogato sulla donna e che 
      tuttora vive, incorporato nelle istituzioni, nelle abitudini, nelle 
      convinzioni filosofiche e morali della ‘civiltà’.  
      Sono quelle “zone oscure”, quegli “angiporti di umanità” che Francesco 
      Merlo vorrebbe lasciare nella cronaca nera, affrontare con “la medicina 
      psichiatrica”, e che altri preferiscono spostare sulle culture ‘diverse’, 
      ‘arretrate’. E’ bastato il caso Hina, l’estate scorsa, per dare alla 
      violenza patriarcale il volto di una comunità, di una religione, per farne 
      un tassello dello “scontro tra Occidente e Islam”. 
      
      Negli scritti dei 
      bambini, che compaiono nel libro di Paola Tabet, la commistione di 
      sessismo e razzismo non compare, ma forse, se al posto del tema “Se i tuoi 
      genitori fossero neri” si fosse chiesto di dire cosa intendono per maschio 
      e femmina, oppure cosa pensano di eventuali genitori gay e lesbiche, 
      avremmo avuto non meno ragioni di stupirci, ridere o rabbrividire.  
      “La vita dei negri è bruttissima perché già a vederli sono poveri. I negri 
      nascono in Sud America, Iraq, Maroche, Albania. I negri a scuola non li 
      accettano e li buttano via e io non vorrei stare fuori da scuola. I negri 
      nascono di tre razze: di pelle nera, gialla e bianca”. “Se i miei genitori 
      fossero negri sarebbero vestiti con degli stracci e ciabatte da arabo. 
      Abiterebbero in jugoslavia. Mangerebbero sempre riso e farina”. “Se fossi 
      nero: ruberei, farei tutto con malvagità. Andrei per la strada a vendere 
      cose. Abiterei in luoghi sporchi”. “Se i miei genitori fossero neri, gli 
      darei una bella ‘scartazzata’, così sarebbero bianchi e puliti come la 
      lana di una pecora bianca appena lavata con il sapone”. 
      
      Oggi la violenza che 
      ha a che fare col rapporto tra i sessi, benché esca sempre più spesso 
      dalle case, dal privato, dall’ambiguo legame con l’amore, continua a 
      subire forme diverse di cancellazione: sia che si tenti di darle una 
      maschera ‘etnica’ , sia che la si riduca a patologia individuale, raptus 
      momentaneo. Se c’è una ‘cultura’ che ha fatto del pregiudizio razziale il 
      suo atto fondativo, è proprio quella maschile, col suo carico di 
      ingiustizie e di orrori perpetrati a danno dell’altro sesso e poi via via 
      su altri ‘diversi’.  
      L’incivilimento ha prodotto finora cambiamenti superficiali e passibili di 
      essere contraddetti. Per scuotere un’ideologia che è divenuta ragione di 
      sopravvivenza, garanzia di privilegi, occorrerebbe una forza collettiva di 
      donne consapevoli del loro destino, capaci di vedere nel potere –sessuale 
      e procreativo-, che è stato loro attribuito, la ragione prima della loro 
      sottomissione.  
      Se non ci fermiamo alla facile equiparazione tra migrante e stupratore, la 
      rappresentazione, così genuina e ‘politicamente scorretta’ che danno i 
      bambini del razzismo, può aiutarci a portare allo scoperto alcune 
      parentele radicate nel senso comune, che parlano dell’affinità tra vittime 
      del razzismo e vittime del sessismo. 
      
      Lasciando stare 
      l’ideologia che interpreta l’inferiorità di un popolo come ‘effeminatezza’, 
      ci sono altri tratti comuni nel modo con cui si costruisce socialmente, 
      politicamente la “differenza”. E’ sempre un gruppo dominante, come scrive 
      Paola Tabet, che decide la classificazione e la collocazione sociale di 
      persone e gruppi “secondo una biologia di comando”.  
      La costruzione del ‘diverso’ è sempre “reificazione di rapporti sociali. 
      Rimossi lo sfruttamento, il dominio, la storia coloniale passata e i 
      rapporti attuali di egemonia economica dell’Occidente,obliterati dunque i 
      rapporti politico-economici che creano la povertà, rimane in piedi solo la 
      povertà stessa, illimitata, inspiegabile”.  
      Ma non si può dire lo stesso per quegli aspetti psicologici, culturali che 
      tuttora vengono attribuiti alle donne, e a cui si continua ad imputare la 
      loro inadeguatezza, estraneità, rispetto alle responsabilità della vita 
      pubblica?  
      Non sono queste ‘differenze’, naturalizzate, a offrire ragioni sia a chi 
      vorrebbe vedere nel femminile materno  i tratti di una superiore umanità  
      -non violenta, generosa di cure e attenzioni all’altro-, sia a chi, come 
      Otto Weininger considerava le donne incapaci di “rapporti vicendevoli”, in 
      quanto prive di quella indipendenza che è solo di chi, come l’uomo, 
      possiede un Io intelligibile? 
  
      
       questo articolo è apparso su
      
      Liberazione del 
      27 ottobre 2007 
       
      
         
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