Un giornale tra  autonomia e logiche padronali 
      di Lea Melandri 
        
       
      Ho dato con piacere e senza esitazione la mia disponibilità  a far parte del “comitato editoriale” proposto da Piero Sansonetti, come  “garanzia” della continuità del lavoro svolto finora da Liberazione, e come una possibile uscita dalle secche di un  dibattito che è andato sempre più scadendo in uno scontro tutto interno ai  rapporti tra il partito e il giornale. Per accettare mi bastava la convinzione,  più volte espressa sul quotidiano stesso da me e da altri collaboratori e  lettori, che un giornale, qualunque sia la fonte di finanziamento a cui si  appoggia, deve avere l’autonomia come requisito imprescindibile della libertà  di informazione e di pensiero.  
      Ma l’editoriale di ieri, 27 dicembre 2008, in cui Sansonetti espone le  ragioni della sua proposta, ha contribuito ulteriormente a dissipare dubbi,  interrogativi, e soprattutto stanchezze, che potevano indurmi all’attesa  rassegnata di un esito qualsiasi, a cui dire semplicemente: sì o no. Mi  riferisco alle difficoltà economiche e politiche, e soprattutto al nesso di  consequenzialità tra le une e le altre, che dovrebbe impedire di pensarle  separatamente, un nesso che non a caso non viene mai esplicitato o discusso. 
       
      Un giornale di partito, che ha avuto il merito di aprirsi a  soggetti, tematiche, movimenti gravitanti nell’area dell’impegno sociale e  culturale della sinistra,  e che, proprio  per questo, viene osteggiato da gran parte dei militanti di quella  organizzazione politica, pone innanzi tutto seri interrogativi sui fondamenti  ideologici che la guidano: sul rapporto tra appartenenza e libertà, tra ciò che  si considera ‘proprio’ e ciò che accomuna ad altri, tra obbedienza, consenso e  partecipazione critica. Non sono domande nuove, purtroppo.  
      E’ dal ’68 in avanti  che i partiti di sinistra, le loro rigidità organizzative, burocratiche e  chiesastiche, le loro chiusure ideologiche verso ogni ‘esterno’, sentito come  minaccioso, vengono scosse a più riprese da movimenti nati dal basso, da quei  ‘territori’ a cui oggi guardano come a patrie perdute o miraggi, soprattutto se  è il populismo di destra ad abitarli sempre più estesamente. Il caso di Liberazione perciò viene al seguito di  una lunga storia di conflitti, avvicinamenti e prese di distanza,  riconoscimenti reciproci e divisioni, e diventa per questo emblematico del nodo  di contraddizioni irrisolte su cui si gioca il futuro della sinistra  istituzionale. 
       
      L’idea ‘proprietaria’, che oggi viene invocata dalla  maggioranza del Prc, per riportare il giornale nell’alveo di una più  ‘autentica’ e ‘omogenea’ tradizione comunista, è evidente che riguarda più la  politica che i costi, come dimostra il fatto che è disposta a un cambio di  proprietà economica, a condizione di riservare a sé gli editoriali e le prime  pagine del quotidiano.  
      Se la politica può essere pensata in chiave di potere  esclusivo, ‘dominio’ riservato ad alcuni, luogo di una decisionalità di  conseguenza autoritaria, è perché, separandosi sempre più dalle vite e dalle  persone reali, parlando il linguaggio totalitario di tutti i gruppi chiusi, è  diventata un ibrido poco convincente di mestiere e di astrattezza ideologica,  gergalità e semplificazione mediatica. 
       
      Dire -come si legge nell’editoriale di Sansonetti- che “un  giornale è la sua storia, le sue idee, il suo ruolo, i suoi lettori, le aree e  i partiti politici ai quali si rivolge e con cui dialoga”, significa  riconoscere che alla logica padronale –sia essa finanziaria o ideologica- si è  inteso sostituire l’idea di un potere esercitato collettivamente, alla difesa di  un pensiero unico, ‘autentico’ e ‘omogeneo’, la composizione faticosa, continua  e mai definitiva, di voci diverse, a volte dissonanti, ma accomunate dalla  convinzione che siano le difese, erette dalla politica tradizionale contro  esperienze essenziali dell’umano, a minacciarne la sopravvivenza.  
      La trattativa  avviata per vendere Liberazione a un  editore che dichiara di voler raddrizzare la rotta di un giornale portato dal  suo direttore contro gli scogli pericolosi della sessualità, del femminismo,  dell’omosessualità e del trans gender, dice, fuor di metafora e sia pure per  interposta persona, quanto i ‘rifondatori’ del comunismo siano lontani dai  movimenti di liberazione che, di fatto, da decenni questo ripensamento lo hanno  avviato, costruito pazientemente, incontrando, da parte di chi pensavano  interlocutore, solo ostacoli, strumentalità, messa sotto silenzio. 
       
    Non si tratta perciò solo di ‘garantire’ l’autonomia che ha  contraddistinto la direzione attuale, ma lo spiraglio che il giornale, pur con  le sue vendite limitate, ha aperto nel tormentoso rapporto tra sinistra  partitica e movimenti, tra esigenze organizzative e pratiche non autoritarie,  tra conflitto sociale e non violenza, tra capitalismo e forme di dominio,  sfruttamento, non riducibili ai rapporti di produzione e lavoro, tra falsa  neutralità delle culture maschili tuttora imperanti e femminismo. 
        
      pubblicato da Liberazione del 28 dicembre 2008  
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