Sessualità macha e moralismo
di Lea Melandri

La sessualità e la vita personale stanno entrando prepotentemente nella sfera pubblica.
Lo fanno mostrando la violenza di cui le donne sono tuttora vittime all’interno delle case, ma anche i cambiamenti prodotti dalla maggiore consapevolezza e libertà con cui si vanno scostando dal destino che le ha volute ‘naturalmente’ sottomesse all’uomo. Lo fanno portando allo scoperto i legami che ci sono sempre stati tra una sessualità di servizio, come quella femminile, e il potere che ne ha goduto i benefici, compensandoli con protezione, denaro, doni, onorificenze.

Ma lo fanno anche, purtroppo, nei modi che erano prevedibili all’interno di una cultura che continua a usare il corpo come merce, materia di scarto, organi buoni per le sperimentazioni scientifiche, mentre giudica le scelte personali che lo hanno come parte in causa sulla base di criteri moralistici e curiosità morbose. La vicenda che ha avuto al centro il Presidente del Consiglio ha lasciato intravedere, in un primo tempo, l’aspetto politico del rapporto tra i sessi  -riscontrabile, non nel ‘disordine’ della sua vita sessuale, ma nell’aver scambiato sesso con cariche di rappresentanza, ragione sufficiente per chiederne le dimissioni. Lo sviluppo che ha avuto successivamente sui giornali e nel dibattito pubblico, con giornaliere rassegne e biografie delle frequentatrici di Palazzo Grazioli, cronache meticolose delle battute machiste del premier, ha finito invece per farla ricadere
pesantemente dentro la cornice del moralismo diffuso, che confonde peccato con reato e considera offesa al comune senso del pudore qualunque scelta sessuale che non rientri nella ‘norma’ –eterosessualità, fedeltà coniugale-, come nel caso di Marrazzo. La sessualità si è costruita dentro il dominio storico di un sesso sull’altro, dentro regole di ‘normalità’ e ‘perversione’ che la stessa cultura maschile ha preteso ogni volta di ridefinire. Appartiene perciò da sempre alla sfera pubblica, ai poteri e ai saperi che ne hanno preteso il controllo. Oggi, in assenza di un pensiero che la interroghi nelle sue implicazioni profonde, che riguardano il sessismo, ma anche la pedofilia e il razzismo, il rischio è che venga usata solo come un’arma per colpire l’avversario politico.

Se nella vicenda, che ha avuto come protagonista Silvio Berlusconi, sono state le donne –mogli, escort, intrattenitrici- a svelare i retroscena sessuali del potere, nelle storie solo apparentemente simili che si sono succedute –l’attacco al direttore dell’ Avvenire, Dino Boffo e le dimissioni del Presidente della Regione Lazio-, sono uomini a scoperchiare il ‘privato’ inconfessabile che sta dietro l’esercizio di importanti ruoli istituzionali, da parte di altri uomini. Il re si denuda da solo, e non importa molto se lo fa per vendetta, per odio verso gli oppositori o solo per il piacere  di veder cadere il nemico nella stessa melma. Ma, mentre nelle alte sfere della politica l’irruzione della sessualità mette in scena una specie di cupio dissolvi, che investe le persone, ma anche la credibilità delle istituzioni democratiche che rappresentano, nella quotidianità del comune cittadino il maschilismo impera, si fa aggressivo, riavvicina in un unico ‘virile’ pregiudizio i figli e i padri.

A Montalto di Castro, un intero paese prende le difese dei ragazzi che due anni fa violentarono una giovane di 15 anni, e che oggi vengono rilasciati “in prova”. I commenti raccolti dai giornalisti insistono su due aspetti: l’appartenenza alla comunità del paese  -“i nostri ragazzi”, mentre “lei” era di un altro luogo-, e l’identità di genere –maschi, “come tutti gli altri, che non hanno alcun bisogno di stuprare ragazze”.  Con lo stesso orgoglio virile, Berlusconi aveva tentato di allontanare da sé il sospetto di aver dovuto ricorrere a prestazioni sessuali pagate, che avrebbero macchiato di vergogna la sua potenza di maschio e di uomo di successo. Il pregiudizio sessista prevede che siano le donne a offrirsi, a eccitare gli istinti sessuali maschili, a lasciarsi prendere dopo un’iniziale, maliziosa resistenza. “L’uno dev’essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; è necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altro offra poca resistenza. Stabilito questo principio, ne consegue che la donna è fatta soprattutto per piacere all’uomo. Se è vero che l’uomo deve a sua volta piacerle,questa è una necessità meno immediata: il suo merito è nella sua potenza; egli piace per il fatto stesso che è forte. Non è questa la legge dell’amore, lo ammetto, ma è quella della natura, anteriore all’amore stesso…Il modo più sicuro per eccitare tale forza è di renderla necessaria offrendo resistenza…l’uomo trionfa della vittoria che la donna lo ha stimolato a riportare”.

Non è stato un violentatore incallito –o forse sì, in qualche segreto anfratto delle sue abitudini private- a dettare, con la solennità che si addice a un pedagogo illustre, le regole della sessualità di maschi e femmine. Chi scrive è J.J. Rousseau, mai ricordato abbastanza per il posto che occupa il suo pensiero nella storia di una ‘democrazia’ che prevede l’esclusione, per legge naturale, di metà degli esseri umani. Nelle dichiarazioni degli abitanti di Montalto, condivise, si può immaginare, da molti cittadini italiani, lo stupro non è giudicato in quanto crimine, tanto più grave se è fatto da un gruppo, contro l’inviolabilità della persona, ma per l’ombra che getta su una malintesa ‘potenza virile’: “questi ragazzi mica sono romeni, che picchiano e uccidono”. La violenza sessuale, nel sentire comune, è evidente che non appartiene allo stesso ordine dei maltrattamenti e dell’omicidio, è solo una “cosa” che “capita” una sera a dei “bravi ragazzi”: incontrare una giovane donna “che ci sta”. Fabio Roia, membro del Csm, in un articolo comparso su L’Unità (18.10.2009) ha scritto:
“La nostra società fatica ancora a riconoscere pienamente il profondo disvalore della condotta violenta (sessuale, fisica, psicologica) realizzata nei confronti delle donne anche per la confusione creata da alcuni modelli che vengono sistematicamente proposto e che tendono alla oggettivazione del genere femminile. Si tratta di una violenza sottile nuova per i parametri di riferimento estetici e di presunta affermazione sociale, ma vecchia per il modo di considerare la donna”.

Il modello ‘velina’ e tutte le immagini pubblicitarie che rappresentano la donna solo come corpo erotico, hanno sicuramente contribuito a incrementare quella “violenza sottile” che è il discredito preconcetto della vittima, la ragione per cui “sarebbe addirittura lecito e virtuoso pretendere subalternità affettiva, lavorativa e sessuale” da parte del genere femminile. Ma se è vero che il maschilismo,  e il pregiudizio razziale che lo accompagna, estendendolo alle stesse categorie di uomini –gay e  trans-  che non collimano con la ‘norma’ sessuale dominante, è antico quanto il mondo, allora non bastano interventi censori, e tanto meno la riprovazione morale, che danna alcuni e sottrae ancora una volta l’ideologia machista a una campagna culturale e politica all’altezza dei problemi che oggi entrano da protagonisti nella sfera pubblica, portando il segno dei secoli di ignoranza in cui sono stati lasciati.

 

apparso su Gli altri del 29 ottobre 2009

 

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