Le donne di Napolitano: una polemica

Enza e Emilia sono donne. Non beni di cui godere

di Lea Melandri


Flor Garduno

Non si fa fatica a credere che Emilia Galeotti e Enza Colonna, le due donne di Napoli che il Capo dello Stato aveva incontrato nella sua visita autunnale alla città, siano rimaste, come si leggeva su Repubblica, del 2 gennaio, “incredule e commosse per essere finite coi loro affanni quotidiani dentro quel sonoro del Quirinale a cui prestavano, in fondo, vagamente attenzione”.

L’ “eroismo” dei semplici, degli oppressi, degli emarginati, è stato da sempre l’illusione più ingannevole, l’arma, non si sa se ingenua o maliziosa, con cui il potere ha tentato di nascondere o rimuovere antiche ingiustizie, considerandole come leggi “naturali”.

E’ vero che un movimento di donne ormai più che trentennale ha dato il massimo risalto alla vita e all’esperienza di ogni singola donna, alla necessità che storie “oscure”, sepolte negli interni delle case, fossero narrate e fatte oggetto di riflessione, ma il fine era proprio quello di uscire dalla strettoia, descritta magistralmente da Virginia Woolf, che vede le donne “esaltate immaginativamente” e lasciate nella “insignificanza storica”.

Di storie di sacrificio, dolore, fatica, dedizione incondizionata, adattamenti gioiosi, passioni pagate con l’indigenza economica, è piena la quotidianità femminile, e, per quel barlume di cambiamento che è avvenuto nella coscienza e nella vita di molte donne, si vorrebbe che almeno ci fosse oggi risparmiata la trasfigurazione ideale che gli uomini ne hanno sempre fatto.

Assunte, sia pure in un breve accenno – venti righe su venti cartelle - nel discorso istituzionale più ascoltato dagli italiani, il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica, Enza ed Emilia sono diventate figure emblematiche di una condizione femminile antica e purtroppo sempre attuale: la maternità e la precarietà, la cura dei famigliari e l’incertezza occupazionale, la subalternità nel mondo del lavoro.

Il movimento che compie tra pochi giorni un anno dalla sua “uscita dal silenzio” con la grande manifestazione del 14 gennaio 2006, ha chiesto insistentemente una “parola pubblica” significativa, su un’infamia che dura da millenni, la violabilità del corpo femminile, la forma estrema, ma tutt’altro che eccezionale, del rapporto “proprietario” che l’uomo ha intrattenuto con l’altro sesso, come se fosse una consegna naturale.

Dal Capo dello Stato abbiamo sentito giustamente rimarcare la strage quotidiana degli “omicidi bianchi”, le morti sul lavoro, esito nefasto, coperto da silenzio e indifferenza, dello sfruttamento economico, della marginalità sociale, della miseria.

Neppure una parola è stata detta sulla violenza contro le donne, di cui pure si è dibattuto ampiamente nelle piazze, sui giornali, in convegni e documenti di donne e uomini, su cui Napolitano stesso era intervenuto con una lettera il 25 novembre scorso. Non si sperava, come in molte avremmo tuttavia desiderato, in un riconoscimento di responsabilità maschile: la violenza contro le donne ci riguarda come uomini, come appartenenti al sesso che ha imposto storicamente il suo dominio. Ma dire ai milioni di italiani in ascolto che non si vuole più ignorare la guerra che passa dentro le case, le famiglie, i rapporti d’amore, avrebbe di certo aperto una piccola fessura nell’indifferenza con cui vengono ormai accolti, dalla triste annoiata litania dei telegiornali, stupri e omicidi di donne.

Invece abbiamo sentito ancora una volta, dalle parole della massima carica dello Stato, elogiare i “talenti”, le “energie femminili”, la grande “forza morale” delle donne, la “risorsa preziosa” che esse rappresentano per la vita della nazione. Sarà per questa “preziosità” nascosta, poco “valorizzata”, che gli uomini continuano a ucciderle, a umiliarle, a tenerle fuori dagli ambiti istituzionali, politici, economici, culturali, dove si decidono le sorti della comunità?

In fondo, non dice qualcosa di simile il padre della democrazia moderna, J. Jacques Rousseau, quando giustifica l’esclusione delle donne dal contratto sociale col riconoscimento delle loro “potenti attrattive”: la maternità e la sessualità, il compito di incanalare le loro energie fisiche, psichiche, intellettuali, verso l’uomo, per la sua riuscita pubblica, la sua felicità?

“Risorse” le donne lo sono da sempre, risorse umane ma trattate alla stregua di beni naturali, come l’acqua, l’aria, il petrolio, e come quelli considerate inesauribili, create dal buon Dio perché qualcun altro ne godesse.

Che cosa vuol dire allora “valorizzarle” come “risorse”, se non lasciarle nella loro funzione tradizionale incoraggiante affinché la loro dedizione, la loro instancabile “cura”, nella sfera privata e pubblica, non vengano meno, esaltarle per un “talento” destinato a non uscire dagli argini stretti in cui lo hanno confinato il potere e la cultura maschile?

Se le donne sono state e continuano a essere “tenaci” lavoratrici, acrobate di un faticoso equilibrismo tra casa e lavoro esterno, maternità, professione, impegno sociale, lo sono non certo perché dotate di un genio particolare, ma essenzialmente per obbligo, trasformato a volte in scelta, libertà, almeno apparente. Verrebbe da dire: per non morire del tutto, per tenersi una riserva di vita propria.

Quanto alla “forza morale”, come può non venire il sospetto che si tratti in realtà di energie strappate al proprio benessere, alla cura di sé, considerate egoismo, inclinazione snaturata, sterilità affettiva? Come si può credere che si tratti della stessa “moralità” di cui sono state ritenute carenti, o del tutto prive, perché troppo vincolate al corpo, troppo segnate da un’incontenibile irrequietezza emotiva?

Aver ascoltato la storia di Emilia e di Enza e averle portate all’attenzione pubblica avrebbe avuto un significato molto diverso se invece di limitarsi a elogiarne l’abnegazione, fosse servito a dire che non può essere lasciato sulle spalle di una madre il recupero di un figlio a rischio di delinquenza, e che non si può permettere che una giovane ricercatrice, appassionata del suo lavoro, guadagni mille euro al mese, con un contratto a breve scadenza.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 4 gennaio 2007