Manifesto dei perché

 di Lea Melandri

primo intervento del blog su Usciamo dal Silenzio

 

Mi piace l’idea del “manifesto dei perché”, una sorta di autoinchiesta (in versione d’epoca: autocoscienza) per dirci condivisioni, dubbi, proposte riguardanti l’impegno di Uds sulla “rappresentanza 50 e 50”, che preferirei però definire “presenza”, tenuto conto che le donne non sono una categoria, un gruppo sociale o una minoranza da rappresentare. Ma neppure quel “sesso che non è un sesso” (Irigaray), di cui è giusto sia riconosciuta la “differenza” storica -contro la pretesa neutralità maschile-, ma solo per metterla in discussione.

1. Perchè sono favorevole? Potrei dire che ho avuto modo, incontrando in varie città italiane assemblee uds, associazioni, gruppi diversi di donne, di verificare che il problema è sentito, pur con qualche riserva da tutte. Il desiderio che, in consonanza col cambiamento del proprio modo di pensare e sentire, cambi anche qualcosa del contesto in cui viviamo, si sta facendo strada, e coinvolge donne di generazioni diverse. D’altra parte, quanto il discorso sul farsi “soggetto politico a pieno titolo” sia stato al centro del percorso fin qui fatto dalla nostra assemblea milanese, è noto, e mi ha sempre trovato d’accordo.

Dirò allora delle ragioni personali che mi si sono fatte chiare, dopo un’adesione immediata benché dubbiosa, o meglio, contraddittoria, venendo la mia formazione da pratiche femministe antistituzionali. Negli ultimi anni, e soprattutto dopo l’incontro con Uds, il mio modo di considerare il rapporto uomo-donna è, in parte, cambiato. Ci sono aspetti che in passato consideravo secondari –o non consideravo affatto-, e che oggi mi sembrano prioritari.
Essenzialmente due: la violenza manifesta contro le donne e la loro assenza/esclusione dai luoghi decisionali della sfera pubblica. Oggi, devo aggiungere, ne vedo più chiaramente le connessioni: la violabilità del corpo femminile è strettamente legata alla cancellazione della donna come persona (pensiero, volontà, responsabilità morale, ecc.). Sono le due facce correlate di quel fondamento di ogni razzismo che è l’identificazione della donna con la sessualità, la maternità, la riproduzione della vita, la natura).
La biopolitica comincia con la riduzione della donna  -e di quella parte di umanità che è stata di volta in volta ad essa assimilata: schiavi, bambini, prigionieri, ecc.- a corpo biologico, escluso-incluso come tale nella pòlis. Casa e città vanno ripensate insieme, tanto più che oggi i confini tra sfera personale e sfera pubblica, vita e politica si sono spostati fin quasi a scomparire.
Fino a poco tempo fa pensavo che fosse prioritaria la “presa di coscienza”, l’analisi della “violenza invisibile”, di una visione del mondo prodotta da altri e interiorizzata come propria. Mi feriva soprattutto la complicità femminile, sia pure inconsapevole e per molte ragioni giustificata.
Dopo tanti anni di paziente scavo nella soggettività delle donne, di paziente attesa di vedere un cambiamento da parte maschile, ho dovuto riconoscere che stava crescendo in me una forte indignazione per l’arroganza, la stupidità, la pervicace finzione di neutralità degli uomini, in particolare dei politici e degli intellettuali. Insopportabile, di conseguenza, il prezzo che ne pagano le donne.
Nel momento in cui è comparsa storicamente la consapevolezza e la denuncia del dominio maschile attraverso la parola delle donne, la maschera della neutralità diventa la difesa a oltranza di un privilegio, così come la messa sotto silenzio del cambiamento avvenuto.

Ma c’è un’altra ragione. Finché le donne restano fuori dalla scena pubblica, vale l’ambivalenza che pesa da millenni sul femminile: l’insignificanza storica delle donne e la loro esaltazione immaginativa, che le vede come “risorse” di umanità, integrante forza creativa, ma che è, di fatto,  la più insidiosa copertura ideologica della divisione sessuale del lavoro, della canalizzazione di tutte le energie femminili a vantaggio dell’uomo.
Questa contraddizione è ben rappresentata dal significato che le donne ancora danno al loro essere “moglie di”, “madre di”, in cui convergono lavoro di cura, indispensabilità all’altro, conferma di identità, illusoria realizzazione di sé.
Nel momento in cui fossero presenti sulla scena pubblica, sarebbe più facile anche esercitare nei loro confronti un giudizio critico, confrontare idee, confliggere, riconoscere diversità, rompere il cerchio vizioso di idealizzazione e disprezzo riservate al genere femminile.
Si potranno guardare con più realismo i segni che hanno lasciato millenni di schiavitù, riconoscere che l’emancipazione, se è conquista di libertà e diritti, è anche rivelatrice impietosa di tante illibertà, adattamenti, omologazione. Il femminismo degli anni ’70 è nato anche come critica a questo tipo di subalternità.

La ricerca di una autonomia da modelli interiorizzati deve restare centrale nella nostra pratica politica e anzi rafforzarsi nel momento in cui le donne entrano nei luoghi e nelle istituzioni storiche del dominio maschile.

2. Condizioni. Il tema della “presenza 50 e 50” non dovrebbe essere collocato in un discorso di “crisi della democrazia”, o di “cittadinanza incompleta” (a cui è inevitabilmente collegato il tema “quote”). Il riferimento dovrebbe essere, a mio avviso, la crisi della politica, che, diventando sempre più bio-politica, politica sulla vita, svela le sue radici, l’ infamia su cui si fonda la pòlis.

Il femminismo non ha portato allo scoperto solo il sesso incluso attraverso un’esclusione dai poteri pubblici, ma anche tutto ciò che della “persona” (corpo, sessualità, malattia, invecchiamento, ecc.) è stato messo al bando insieme alla donna, considerato impolitico.
Vorrei che non diventassimo più realiste del re, andando a rafforzare istituzioni cadenti, che sono all’origine della nostra cancellazione come persone. Vogliamo essere soggetti politici a pieno titolo, ma soggetti di una politica ripensata in tutti i suoi aspetti, messa in discussione in ciò che ha diviso e contrapposto, quelle dualità che oggi, saltati i confini tra privato e pubblico, tra natura e cultura, tornano a confondersi in pericoloso amalgama: l’antipolitica, nell’uso che ne fa la destra, e la politica sulla vita, nella piega che sta prendendo da una parte e dall’altra, come tentazione di legiferare sulle vicende essenziali dell’umano, come la nascita e la morte.

Io vedo in questo impegno l’occasione per uscire dai dualismi che hanno separato e contrapposto: maschile e femminile, casa e città, famiglia e società, ma anche emancipazione e liberazione, politica delle relazioni e politiche istituzionali, sessualità e economia. Le problematiche del corpo, su cui si è mosso il femminismo anni ’70, sono oggi al centro dei poteri forti della vita pubblica –Stato, Chiesa, scienza, medicina, comunicazione, ecc.-, e le donne rischiano di essere ancora una volta l’oggetto per eccellenza del controllo pubblico.
Una battaglia per un elementare, incontestabile diritto di uguaglianza, garantito dalla Costituzione, resterebbe un guscio vuoto, totalmente interno al sistema esistente, se non fosse, al medesimo tempo ricerca di quei nessi, che già esistono, tra sessualità e politica, vita e politica, che vanno riconosciuti e ripensati.

Per questo è importante che tutti i temi su cui si è espresso finora Uds siano presenti, intersecati con un discorso che dovrà essere inevitabilmente anche specifico (legge elettorale).
Siccome sarà difficile tenere insieme tutti gli aspetti, propongo che si dia seguito al Laboratorio già iniziato presso
la Libera Università delle donne, convogliando sul tema famiglia, unioni civili, anche le questioni che vi sono connesse: lavoro di cura e lavoro fuori casa, violenza contro le donne, maternità, aborto. Assemblea e Laboratorio potrebbero procedere insieme, intersecandosi e arricchendosi reciprocamente.