Schiave radiose

di Lea Melandri


L’aspetto più evidente della barbarie in cui stiamo precipitando è la semplificazione estrema dei problemi: si semplifica usando l’immaginario per scatenare determinate emozioni  -vedi, nel caso Englaro, l’uso della figura fortemente emotiva del ‘procurare la morte per fame e per sete’, un’evocazione lontana da ogni verità medico-scientifica; oppure si semplifica nascondendo situazioni complesse e contraddittorie dietro una razionalità ideologica  -come fa ad esempio gran parte della sinistra quando non riconosce che l’immigrazione, la mescolanza di culture, di popoli diversi, muove paure, rifiuti, diffidenza, aggressività; e poi c’è la semplificazione dell’ intervento repressivo, autoritario, per cui tutto il problema viene a ricadere dentro una logica punitiva – controllo, aggravamento di pena, ritorsione vendicativa.

Ma rischiamo anche noi di semplificare, quando diciamo con forza  -ed è giusto ripeterlo fino alla nausea- che la violenza contro le donne è maschile, “che non ha passaporto”, come dicevano gli slogan delle nostre manifestazioni, e che è essenzialmente domestica –cioè che avviene all’interno di insospettabili legami intimi, famigliari, amorosi-, domestica anche quando avviene nelle strade, perché è nella famiglia che si formano gli uomini, è nei primi rapporti parentali che si strutturano  pulsioni di amore e odio destinate a segnare la vita adulta.
Tuttavia, è una semplificazione fermarsi a questa verità e non riconoscere che la violenza sessuale è stata usata come arma di guerra da parte di uomini contro altri uomini, di popoli contro altri popoli. Ciò vuol dire rendersi conto che il sessismo spesso si intreccia e si confonde col razzismo, come sta avvenendo oggi, sotto i nostri occhi: una campagna xenofoba spinge il gruppo etnico che ne è colpito a vendicarsi, aggredendo i corpi delle donne di chi gli è ostile. Valga per tutti l’esempio di quanto successo a Roma: il gruppo dei rumeni che aggredisce una ragazza sotto gli occhi del fidanzato dicendo che gli sta dando una prova di virilità. In senso lato, si può dire che, in questo caso, siamo di fronte a qualcosa che assomiglia allo ‘stupro etnico’.

Il corpo femminile, in altre parole, non è solo al centro del rapporto che con esso intrattiene ogni singolo uomo –riducibile perciò a una dimensione ‘privata’-, ma è da sempre entrato nella vita sociale, come oggetto di relazione, scambio, dono o guerra, tra gruppi di uomini, popoli, culture.

Altro elemento di complessità è che, se è vero che, da un lato, il corpo femminile è stato ridotto a proprietà dell’uomo, identificato con la funzione biologica-riproduttiva e sessuale – il che significa fatto oggetto di espropriazione massima: negazione della donna come persona,  essere umano dotato di corpo e pensiero-, dall’altro, è stato visto in modo molto contraddittorio: si può pensare  che sia stato proprio il vissuto infantile del maschio - la dipendenza totale di fronte al potente corpo che lo genera, gli da le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali- a ribaltare le posizioni.
Le potenti attrattive della donna si trasformano inspiegabilmente in fragilità, miseria, debolezza, bisogno di protezione.
Nel capovolgimento delle parti, l’onnipotente immagine materna si trasforma, come scrive J.Michelet, nel suo libro L’amore,  in quella di un “piccolo tenero bimbo”. Cioè, come dice l’uso del maschile, va a collocarsi in quello che è stato all’origine il posto dell’uomo-figlio.
Del resto, basta pensare che, se si instaura un dominio –e tale è stato storicamente quello del sesso maschile sulla donna- è perché si pensa di dover tenere a bada una potenza minacciosa.

Tener conto di questa contraddizione ci permette di capire anche perché il primo passaggio delle donne verso l’emancipazione sia avvenuto e avvenga oggi sotto i nostri occhi, o come assimilazione all’uomo  -fuga da un ‘femminile’ svalutato-, o come rivalsa, che avviene sullo stesso terreno e dentro lo stesso immaginario su cui è nato il sessismo: il corpo, la sessualità, la maternità vengono impugnate dalle donne stesse come potere, scambio economico dichiarato, assunto consapevolmente - quello che Paola Tabet, nel suo interessantissimo libro, La grande beffa, chiama  “scambio sessuoeconomico”: sessualità in cambio di denaro, favori, protezione, ecc.
Quelle che sono state storicamente le cause del loro asservimento, vengono oggi assunte attivamente dalle donne stesse, consapevoli di possedere con la bellezza e la maternità una moneta preziosa, molto richiesta.

Corpo e sessualità si emancipano in quanto tali  -il corpo si può esibire e vendere-, e l’esito evidente non è quello che si prospettava il movimento di liberazione delle donne degli anni ’70, quando parlava di riappropriazione del corpo, costruzione dell’individualità femminile come ‘corpopensante’, uscita da una violenta oggettivazione del proprio essere, ma anche dall’esaltazione immaginaria che l’uomo ne ha fatto. Le pratiche del primo femminismo oggi sono lontane e l’immagine femminile dominante è quella che una volta ho chiamato di schiave radiose.

E’ molto importante perciò non rimandare ulteriormente –come abbiamo fatto purtroppo per anni- una campagna di contestazione culturale, politica, della rappresentazione che si da del corpo femminile nella pubblicità, nella televisione, nei media in genere, soprattutto quando è un uso decisamente razzista. Ma è bene riconoscere anche che, su questo piano, non si va molto avanti, anche perché è facile incontrare la contrarietà delle donne che quel corpo lo espongono e lo vendono volentieri. Anzi, spesso se ne fanno un vanto.

Occorre riportare il problema alla radice, e la radice è la famiglia: è lì che, prolungando ed estendendo all’età adulta la relazione di infanzia, la donna è stata fissata istituzionalmente nel ruolo di madre, madre anche quando è moglie, figlia, amante, sorella; è lì che, in assenza di consenso e, soprattutto, di una sessualità propria, si consuma da secoli la violenza sessuale sul suo corpo –insidiata da bambina, abusata per il piacere dell’uomo da adulta.
E’ dunque nella famiglia, e successivamente nella scuola, dove come sappiamo c’è una presenza quasi esclusivamente femminile fino alla superiori, che si consolida per l’uomo l’idea di indispensabilità, e quindi di potere, della donna, è lì che si struttura la dipendenza, più o meno consapevole, da un corpo generoso di cure e attenzioni  -offerte o pretese che siano.
La famiglia appare oggi, in presenza di donne sempre meno sottomesse, una polveriera, perché concentra un massimo di dipendenza e spinte a sottrarvisi, spinte che, in mancanza di consapevolezza e di libertà, si traducono facilmente in violenza manifesta.

Se si vuole, come è necessario, affrontare sessismo e razzismo alla radice, il luogo fondamentale resta la scuola, momento di formazione degli individui e di socializzazione.
E’ nella scuola che si incontrano maschi e femmine, bambini di lingue e cultura diverse, ancora aperti all’apprendimento di una convivenza non violenta tra diversi.
Ma per avviare un’educazione e una cultura capaci di modificare habitus mentali così antichi e così duraturi, è altrettanto essenziale che la cultura e la politica in generale assumano, per la gravità che hanno, sia la violenza contro la donna che la xenofobia.
Il razzismo –l’attrazione e la paura per il corpo del diverso, dello ‘straniero’- è stato riconosciuto, in quanto riguarda la relazione tra gruppi sociali, tra popoli, e quindi la storia, la sfera pubblica, la guerra tra uomini.
Il sessismo invece, che ne è l’impianto originario, potremmo dire la preistoria  - il primo ‘diverso’, desiderato e temuto, che l’uomo incontra è il corpo femminile da cui nasce-, stenta tutt’oggi ad arrivare alla coscienza, a uscire da un vissuto privato doloroso e mantenuto quasi sempre nel silenzio, oppure, nel caso che venga allo scoperto, fatto passare per patologia individuale.
A fare da sbarramento contribuiscono non poco sia l’ideologia della destra cattolica integralista – che considera le esperienze essenziali dell’umano un proprio appannaggio- sia la scarsa importanza che la tradizione marxista, economicista, della sinistra ha dato alle problematiche del corpo, della persona, dell’infanzia –quelle che oggi si chiamano impropriamente “questioni eticamente sensibili”, e che sono invece profondamente politiche.

Su queste problematiche si gioca oggi il cambiamento della società, verso la barbarie o verso una politica che abbia al centro la vita tutta intera. Su questa scommessa si muove da quarant’anni il femmismo e, anche se nessuno sembra tenerne ancora conto, non l’abbandoneremo.

 

8-03-2009

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