L’ambiguo confine tra etica e politica

di Lea Melandri


Sul risveglio religioso, che è venuto a turbare quello che sembrava in Occidente un processo consolidato di secolarizzazione, sono state date interpretazioni diverse, ma tutte concordi nel rilevare certezze che sono venute meno. C’è chi lo ha messo in relazione con il riproporsi di un Islam arcaico, fondamentalista, che avrebbe riattivato pulsioni analoghe, mai del tutto spente, da parte della Chiesa cattolica.
A Benedetto XVI non sembra essere sfuggita né la violenza dell’antico contendente, oggi largamente insediato dentro la fortezza cristiana, né la forza con cui continua a radicarsi tra i suoi fedeli. Confronto, timore, invidia, sembrano muovere anche la campagna antiaborista di Giuliano Ferrara, fatta sotto l’insegna della croce e contro la poco prolifica libertà delle donne occidentali.
Per altri, l’aggrappamento ai valori tradizionali sostenuti dalla religione, ed evocati da figure di leader carismatici, sarebbe la risposta al disagio di una civiltà che ha perso il rapporto ottimistico con le sue mete tecnico-scientifiche.
Se all’inizio del ‘900 il magnifico “dio-protesi”, equipaggiato di tutti i suoi organi accessori, appariva a Freud soltanto meno felice di quanto si potesse immaginare, oggi l’onnipotenza tecnologica non riesce più a cancellare l’ombra di morte che si porta dietro, sia quando estende le sue sperimentazioni sulla materia vivente, sia quando se ne vedono le ricadute sull’ambiente, sulle risorse naturali, sul rapporto tra le classi sociali e tra i popoli del mondo.
Dall’ “orrore economico”, dal sentimento diffuso di insicurezza, dalla perdita di puntelli identitari, rinascerebbe, per contrasto, il bisogno di spiritualità, rispolverando fasti antichi senza disdegnare, al medesimo tempo, la mode dolciastre della New Age.

Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione, benché abbia legami meno evidenti con il fenomeno religioso, ed è la crisi della politica, che oggi sconta in modo vistoso una separatezza dalla vita quotidiana e dalle persone reali già inscritta nel suo atto fondativo: l’espulsione delle donne dalla sfera pubblica, la scissione tra corpo e linguaggio, tra casa e città, tra biologia e storia.
Oggi le “questioni della vita”, uscite da un millenario esilio, irrompono là dove non erano previste, oggetto di capillari controlli, manipolazione e interventi da parte dei maggiori poteri  -Stato, Chiesa, mercato, tribunali, scienza, media-, ma anche soggetto di possibili cambiamenti culturali e politici.
Si incrinano la visione biologistica e sacralizzata della famiglia, del corpo femminile, della coppia, del nascere e del morire, l’idea di un “ordine naturale e divino” presupposto indiscutibile della morale, della scienza e della legge. A metterle in discussione è la libertà con cui gli individui pretendono di decidere della propria vita.

Di fronte a questo rivolgimento, a essere in difficoltà è soprattutto la politica di sinistra, mentre la destra sembra muoversi con disinvolta spregiudicatezza su un terreno che le è storicamente famigliare: l’antipolitica, il populismo, la retorica dei valori tradizionali, la mozione degli affetti e dell’immaginario collettivo, oggi potenziato dall’uso dei media.
In questo caso, si potrebbe dire che è la vita a divorare la politica. “La democrazia  -ha scritto Giorgio Agamben alcuni giorni fa su “il Manifesto”-  diventa sinonimo di una gestione razionale degli uomini e delle cose (oikonomia): le guerre diventano operazioni di polizia, la volontà popolare un sondaggio di opinione, le scelte politiche una questione di management, i cui modelli di riferimento sono la casa e l’impresa, non la città. Lo spazio della politica tende a scomparire.”
Apparentemente è la rivalsa del corpo e di tutto ciò che è stato confinato nella sfera privata, è quella che viene definita la “femminilizzazione” del lavoro e della politica. Di fatto, il corpo e il femminile riemergono senza perdere i segni del lungo asservimento al “potere sovrano” che li ha ridotti a vita biologica, capacità domestiche, attitudini servili e complementari.
Le forze politiche conservatrici, che traggono da questo amalgama un consenso ampio e popolare, rischiano di assorbire anche l’ultima resistenza a quel “potere sulla vita”, che impronta la storia umana fin dal suo principio. L’inadeguatezza della sinistra, l’impressione che abbia visto aprirsi davanti a sé un vuoto, viene dai suoi fondamenti teorici e ideologici, a partire dall’illuminismo e dal materialismo storico, una ragione e una materialità proiettate quasi unicamente sulla questione dei diritti e dei rapporti di produzione, incapaci di andare alle radici dell’umano, di dare voce, attraverso l’impegno politico, a quella che Marx chiamava “la passione dell’uomo”, il suo bisogno di “autorealizzarsi”.
Anche se nessuno parla più di “sovrastrutture”, rispetto a un economicismo di fondo, le “questioni della vita” restano marginali, passate sotto formule generiche, talora palesemente strumentali.
E’ inevitabile perciò che il vuoto di analisi e di cultura politica venga occupato da chi, come la Chiesa e la destra integralista, oggi alleate, considerano questi temi un loro appannaggio.

Il modo con cui la sinistra liberale, laica, democratica, ha finora affrontato l’invasività delle gerarchie vaticane è stata la contrapposizione frontale Stato-Chiesa, morale religiosa-etica pubblica: una scelta volontaristica e poco produttiva di cambiamenti.
Più utile sarebbe analizzare i legami che ci sono stati storicamente tra due ambiti del potere che si sono sorretti a vicenda, legami che oggi si rinsaldano producendo figure ibride, come gli “atei devoti”.
Soprattutto, bisogna chiedersi come cambia l’idea di laicità, come si modificano i confini tra religione e politica  -ma anche tra etica e politica-, nel momento in cui viene alla coscienza il fatto che nessuna di queste due sfere è “neutra”, dal punto di vista del sesso. Detto altrimenti: al di là di tutto ciò che le differenzia e le oppone, c’è quanto meno un elemento comune, l’appartenenza alla storia del dominio maschile.
Una guarda più alla sfera privata, alla vita personale, l’altra è proiettata verso la sfera pubblica, ma è proprio questa complementarietà a rivelare la loro parentela, la comune matrice in quel protagonista unico della storia, il sesso maschile, che ha diviso, contrapposto, gerarchizzato aspetti indisgiungibili dell’essere umano: il corpo biologico e il pensiero, la sopravvivenza economica e quella affettiva, la necessità e la libertà.

La consapevolezza nuova, che fa il suo ingresso nella storia col movimento delle donne, negli anni ’70  -il rapporto tra i sessi visto attraverso le problematiche del corpo, della sessualità, dell’esperienza personale- modifica sia il confine tra religione e laicità, sia quello più ambiguo tra etica e politica, mostrando come la morale abbia fatto da schermo, occultandoli, a rapporti di potere che attengono alla politica.
L’equivocità in cui sono stati tenuti i due termini diventa più chiara se si pensa al modo con cui si è fatta strada, nel dibattito interno alla sinistra, l’urgenza di costruire un’ “etica pubblica”.
Nessuno dubita che nella storia della sinistra manchino valori, principi morali, eppure da molte parti si è detto e scritto che su questo versante occorreva colmare un vuoto, ed è stato quando si è cominciato a parlare di “questioni eticamente sensibili”: aborto, fecondazione assistita, eutanasia, ricerca sulle cellule staminali. Ci si è accorti che, su queste vicende, mancava una visione propria da contrapporre a quella dell’integralismo cattolico.
La definizione di un’ “etica laica” si è venuta così configurando, per analogia, come l’equivalente dell’etica religiosa; qualcuno ha pensato che potessero persino dialogare, tracciare nuovi equilibri. Ciò significa che, al di là dei contenuti diversi, c’è concordanza nel ricondurre esperienze essenziali dell’umano, che hanno il corpo come parte in causa, al campo della morale, come se fossero problemi di coscienza, da lasciare alla responsabilità del singolo.
Viene così occultato sia il fatto che le “questioni di vita” parlano, più o meno direttamente, del rapporto di potere tra i sessi, sia il profondo rivolgimento che le ha portate oggi a collocarsi “nel cuore della politica”, sintomo della sua crisi e, insieme, possibilità di una sua ridefinizione; possono decretarne la fine, la consegna ad altri poteri  -mercato, religione, scienza, media-, a quella che viene chiamata “antipolitica”, o avviare un processo di rinnovamento.

Per tutte queste ragioni, penso sia importante parlare di “cultura politica”, anziché di “etica pubblica”, per uscire dall’ambiguità, ma anche per rendersi conto che su questo terreno la sinistra, se non avesse operato tagli, cancellazioni all’interno del suo percorso, non sembrerebbe affatto sguarnita.
Come dimenticare il contributo che, negli anni ’70, il movimento non autoritario e il femminismo –analizzando il potere a partire dalle sue radici corporee e psichiche- hanno dato alla “de-naturalizzaizone” e alla “de-sacralizzazione” di esperienze come il nascere e il morire, la relazione di coppia, i ruoli del maschile e del femminile?
Insieme a “soggetti imprevisti”, come i giovani e le donne, sono comparse allora sulla scena pubblica, a segnare la discontinuità con la storia precedente  -compresa quella delle rivoluzioni socialiste- categorie considerate fino allora “impolitiche”: desiderio, autocoscienza, appropriazione del corpo, pratica dell’inconscio. Parole chiave del lessico politico della sinistra, come “democrazia”, “libertà”, “uguaglianza”, sono state rivisitate e riformulate, avendo presente non più la figura astratta del cittadino o della classe, ma l’individuo nella sua interezza, corpo pensante, segnato dall’appartenenza all’uno o al’altro sesso, così come dai rapporti famigliari e sociali.

Nella conversazioni radiofoniche che Rossana Rossanda tenne allora con donne del femminismo (R. Rossanda, Le altre, Feltrinelli), la parola “libertà” , per esempio, si modifica sensibilmente, quando si scoprono le tante “illibertà” che ci portiamo dentro, incorporate.
Per le donne, “libertà” è innanzitutto “libertà di essere”, non essendo state considerate né soggetti morali né soggetti spirituali, come ricordava ancora Otto Weininger all’inizio del ‘900. Non può esserci alcuna libertà dove c’è stata una così profonda alienazione di esistenza. Cambia sostanzialmente anche l’idea di “partito”  -le sue impalcature formali, gerarchiche, burocratiche, i suoi rituali, i suoi miti-, nel momento in cui si vede l’importanza delle relazioni personali, della “modificazione di sé” come presupposto per la “modificazione del mondo”.
Al centro dell’agire politico si è posta allora l’intera vita, e non solo il lavoro che, affrontato dal punto di vista dei sessi, avrebbe a sua volta cambiato volto, come dimostra la risposta di Pietro Ingrao a Rossanda: “E’ che affrontare le questioni dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio: se vuoi affrontare davvero il problema della donna/lavoro, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente  -ecco dove la dimensione diventa diversa- vai a incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza, ecc. Cioè una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione dello stato, tutto il rapporto tra stato e privato”.

Usando una definizione di Roberto Esposito (Esposito, Bìos, Einaudi, 2004) si può dire che, a fronte di una biopolitica concepita come “immunizzazione” della vita, della società, da fatti patogeni, e perciò stesso posta a rischio di autodistruzione per “eccesso di difesa”, i movimenti  non autoritari hanno rappresentato, al contrario, un inizio di “biopolitica affermativa”, capace di produrre una soggettività inedita, e una altrettanto inedita politica non sulla vita, ma della vita.
Il gruppo promotore dell’asilo autogestito di Porta Ticinese, in un documento uscito dal controcorso di pedagogia dell’Università statale di Milano nell’autunno 1968, scriveva: “necessità di recuperare alla lotto politica i rapporti col corpo, con la dimensione biologica degli individui, anche in contrasto con la lunga tradizione ascetica del movimento rivoluzionario… nella società capitalistica gli aspetti e le realtà biologiche dell’uomo, inerenti la sua vita sessuale, il parto, la nascita, l’educazione e la crescita dei bambini, sono tutte quante realtà frustrate, tutte quante sottomesse a una negazione radicale del loro valore.”  (L’erba voglio, Einaudi 1971).
Nel mantenere ai margini della politica le “questioni della vita”, la sinistra che si dice “radicale” non sembra essersi allontanata dalle priorità che il capitalismo ha dato alla dimensione economica, come se la vita di un essere umano fosse tutta nel posto che occupa nella produzione, come se momenti cruciali del vivere  -l’amore, la maternità, la nascita, l’invecchiamento, la morte- non fossero a loro volta sottoposti a pressioni istituzionali, sia a scopo repressivo che di controllo, esperienze di disumanizzazione non inferiore, anche se diversa da quella che comporta il lavoro sfruttato.

Per costruire una nuova cultura politica, che abbia presente l’intera vita, occorre, come “mettere in gioco il proprio corpo”, interrogare la propria esperienza, pensare la soggettività come corpo pensante, sessuato, plurale, capace di riconoscersi nella sua singolarità e, al medesimo tempo, in ciò che lo accomuna agli altri, consapevole che solo avanzando verso strati sempre più profondi di noi stessi si può accedere a un orizzonte più generale.
E’ l’uscita da tante rovinose contrapposizioni, tra particolare e universale, necessità e libertà, dipendenza e autonomia, individuo e collettività, che costruite come poli complementari, portano fatalmente agli accorpamenti che sono oggi sotto i nostri occhi e che chiamiamo genericamente “antipolitica”.

 

pubblicato da Queer inserto di Liberazione del 6 aprile 2008

7-04-2008

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