La visibilità
che acceca
di Lea Melandri
Shirin Neshat
Se ha ragione il ministro Paolo Ferrero, quando dice che il senso del
discorso di Giuliano Amato al
convegno su “Islam e integrazione” (tenutosi l'11 luglio 2007) era di
“ricondurre la violenza sulle donne a tradizioni culturali anziché a
precetti religiosi”, perché tanto clamore, tante alzate di scudi, tante
coscienze femminili offese?
Se ad accendere le polemiche è bastata l’infelice restrizione “ad
abitudini siculo-pakistane” di un comportamento universalmente diffuso
molto prima che la globalizzazione unificasse la famiglia umana, non si
può dire altrettanto per l’estensione e la profondità che ha preso nelle
pagine di alcuni giornali un tema lasciato solitamente alla cronaca.
Ci sono verità rese invisibili da una visibilità eccessiva che, per così
dire, ‘acceca’. Spesso sono proprio i lapsus, le libere associazioni di
immagini e pensieri che affiorano sotto la spinta della memoria, a farsi
rivelatori, testimoni loro malgrado di una “materia rovente”.
Uso un’espressione
che compare nel commento di Michele Serra alla “gaffe” di Amato, e che
esprime in modo efficace lo scarto che ancora esiste tra quell’ “enorme
sommerso” che è il rapporto di potere tra i sessi e l’occasionalità con
cui viene allo scoperto.
“L’idea che il corpo femminile sia proprietà del maschio (il patriarca, il
marito, i fratelli, il capotribù o il capofamiglia) -scrive Serra- è in
piena attività a molte latitudini e longitudini: così tante che diventa
molto difficile limitare a poche aree reiette la violenza sulle donne” (Repubblica
12.7.07).
Che non si tratti di una violenza ormai sepolta nelle “viscere arcaiche”
del Primo Mondo, o rimasta come tragico residuo nelle culture ‘arretrate’
di “altri” popoli, lo dimostra la frequenza dei delitti famigliari, che
ricordano al ‘civilissimo’ Occidente come moglie e figli siano ancora l’
“umanità accessoria” di un non mai tramontato dominio maschile.
A questo punto,
stabilito che non è “in nome di Dio” che si picchiano, violentano e
uccidono le donne, ma per la storia ampiamente documentata del potere che
un sesso ha esercitato sull’altro, riconosciuta la continuità di una
infamia che dura da millenni, ci si aspetterebbe, se non un atto di
rottura eclatante, che come tale richiede il concorso di una volontà
collettiva, quanto meno il tentativo di porre le domande giuste, adeguate
alla gravità della vicenda appena descritta.
Ci si aspetterebbe soprattutto che cadesse il velo di neutralità che ha
permesso al protagonista storico di un dominio così duraturo di sottrarsi
ogni volta all’analisi delle ragioni, più o meno consapevoli, che hanno
fatto sì che diventasse abitudine, legge, tradizione, sapere, imperativo
etico, costruzione immaginaria e ideologica.
La violenza manifesta -lo stupro, l’omicidio, i maltrattamenti- si può
facilmente allontanare da sé o considerare un “caso”, residuo del passato
o atto morboso, che come tale non interroga la maschilità così come si è
costruita storicamente ma la patologia, il degrado sociale, il
pregiudizio.
Non è così per
quella che
Pierre
Bourdieu, nel suo libro
Il dominio maschile (Feltrinelli 2001) chiama la “violenza
simbolica”, interiorizzazione di modelli che passano attraverso il corpo,
il sentire profondo di ogni individuo, la memoria inconsapevole che si
sedimenta fin dall’infanzia attraverso i rapporti famigliari e sociali.
Nel circolo vizioso che chiude insieme il singolo e la collettività, le
discriminazioni, le ingiustizie, le illibertà della persona e quelle delle
istituzioni entro cui si forma, il dominio patriarcale mostra tutta
l’ampiezza delle sue strutture portanti e dei suoi effetti, che vanno ben
oltre il potere di un padre o di un marito di disporre di moglie e figli.
Ma nessuno di questi interrogativi, nonostante un secolo di movimenti di
donne, sembra ancora imporsi con la necessità ‘logica’ di un ragionamento
che si rispetti.
Si parla di
patriarcato -e sembra già tanto che qualcuno lo nomini!-, ma lo si lascia
nell’indeterminatezza di un apparato senza soggetti reali riconoscibili
con cui confliggere o dialogare.
Si esorta a non dimenticare le “spelonche etiche”, le “chiusure mentali”
che ci imparentano ai popoli che consideriamo “stranieri”, ci si
meraviglia che “nessuna gerarchia” abbia messo fine a tanta barbarie, ma
non si dice come mai verità così lampanti e così intollerabili non abbiano
finora creato coscienza collettiva, cultura acquisita, cambiamenti e
pratiche politiche all’altezza di una eredità così pesante e così
generalizzata da attraversare tutte le civiltà.
Il riferimento agli anni ’70, quando il rapporto tra uomo e donna è stato
posto con la radicalità di una rivoluzione che toccava la persona, i
corpi, la sessualità, l’inconscio e la vita pubblica, per quell’ “enorme
sommerso” che sta nel suo atto fondativo, nel commento di Michele Serra
passa quasi inosservato, ristretto al fugace accenno all’
“autodeterminazione delle donne”.
E’ come se fosse stato ancora una volta solo il sussulto della “questione
femminile”, e non il terremoto che scardinava certezze antiche, ideologie
pseudorivoluzionarie, che costringeva ogni singolo, uomo o donna, a fare i
conti con la propria vita privata e pubblica, con le proprie illibertà ma
anche coi propri sogni e desideri.
“Io” è stato allora il soggetto incarnato, depositario di una storia
collettiva ancora in parte inesplorata e riconosciuta tuttavia come
fondamento della politica, della sua crisi e del suo possibile
rinnovamento.
Si poteva uscire
dall’anonimato e dalla neutralità perché la vita personale non era più lo
scarto della storia, perché l’individuo si riconosceva parte della
collettività, i maschi e le femmine condizionati da pregiudizi, paure,
rapporti di forza, in parte inconsapevoli.
Che quella rivoluzione non sia passata senza lasciare segno, lo dimostra
il fatto che il dominio maschile non è più un mistero ma un’acquisizione
della coscienza comune.
Se questa consapevolezza stenta a diventare “utile”, a capire come vanno
le cose del mondo e a modificarle, è perché intacca privilegi, poteri,
certezze ideologiche ‘virili’, ma anche perché non si è fatta ancora piena
luce su quel “retroterra”, sempre meno distaccato dalla sfera pubblica,
che è la famiglia, dove la violenza convive con l’amore, il patriarcato
con l’ ‘indispensabilità’ delle madri, l’arroganza del maschio con la sua
inermità, di bambino, di vecchio, o di marito, fratello, amante affidato
alle cure essenziali di una donna.
25/09/2007 |