Le tante reticenze che vedo dietro la difesa del
mito-Cuba
di Lea
Melandri
Non sono così certa che
sia la questione di Cuba ad accendere tanto gli animi dei comunisti ‘ortodossi’,
a svelare i residui di autoritarismo, di intolleranza, di ‘linea giusta’,
che anche chi non ha esperienza di partito poteva immaginare fossero
rimasti inalterati, dietro tutti i propositi di ri-fondazione, ri-lettura
della propria storia, ri-pensamento della politica, della gerarchia
partitica e così via.
Qualunque sia il
giudizio che si può dare sull’attuale situazione cubana, al centro di
questa polemica, che non ha risparmiato a Piero Sansonetti critiche
violente, avvertimenti minacciosi, del tipo “hai passato il limite”, c’è
la libertà di pensiero, l’apertura che il giornale ha fatto su temi e
pratiche politiche che sappiamo bene quanto siano state occultate, tenute
ai margini, per non dire osteggiate dai partiti della sinistra storica,
sia moderata che radicale.
Come figlia di proletari, mi ha sempre indignato l’arrogante sicurezza con
cui i ‘rivoluzionari’ di ‘buona famiglia’ pontificavano sui “bisogni”
delle classi indigenti, su una idea di ‘materialità’ in cui erano
contemplati solo lo sfruttamento sul lavoro, la salute e un’istruzione già
finalizzata ideologicamente.
Non posso dimenticare la delusione di non pochi sindacalisti nel
constatare che gli operai, che frequentavano i corsi 150 ore, negli anni
’70, preferivano parlare dell’amore che della fabbrica, organizzare
qualche ballo in più e qualche assemblea in meno.
Oggi Rifondazione comunista ‘scopre’ la “persona”, le “relazioni umane”
relegate nella sfera privata, il maschilismo che ha contraddistinto
storicamente il rapporto tra i sessi, si appresta persino ad aprire una
breccia sulla “vita psichica” (salvo consegnarla, purtroppo alla mistica
esoterica delle “analisi collettive” di Massimo Fagioli).
Franco Giordano, alla Conferenza di Carrara, ha parlato della necessità di
una “terapia d’urto” per liberarsi di vizi antichi, schemi verticistici,
limiti teorici e pratici nell’interpretare i cambiamenti in atto nella
società, causa ed effetto della crisi in cui versa la politica.
Fausto Bertinotti ha annunciato pochi giorni fa alla stampa, con la
solennità dei grandi eventi, che la sinistra, “senza ripensamenti”, senza
estendere la sua indagine a “nuovi territori”, non potrà riprendere il suo
cammino. Non è mancata neppure l’indicazione di alcune di queste lande
inesplorate: “Una sinistra deve camminare su due gambe: su ciò che non
sappiamo dell’uomo e della donna e su ciò che già sappiamo dello
sfruttamento e dell’oppressione della società”.
Ora, si da il caso che
una componente non insignificante del popolo di sinistra, le donne
impegnate da alcuni decenni nei gruppi femministi, ma anche giovani,
intellettuali, associazioni della cultura, dell’arte, del lavoro sociale,
su uomini e donne abbiamo una conoscenza lunga ed approfondita, anni di
ricerca teorica e di pratiche volte a modificare pregiudizi, violenze
manifeste e invisibili su cui si sono costruiti gli interni di famiglia
quanto le istituzioni e i poteri delle istituzioni pubbliche.
A questo lavoro rimasto
forzatamente sotterraneo, dopo l’esplosione degli anni ’70, o costretto a
percorrere strade parallele di poca o nessuna considerazione da parte dei
media e dei partiti, Liberazione, ha dato, con la direzione di
Sansonetti, la passione femminista di Angela Azzaro, l’impegno del
Forumdonne, e della redazione nel suo complesso, un rilievo e un
riconoscimento finora sconosciuto.
A questa apertura devo la mia quasi triennale collaborazione, e quella di
molte donne e uomini che nell’autonomia del giornale hanno potuto
incontrare percorsi diversi dai propri, confrontare pratiche di movimento
e politiche istituzionali, avviare quel cambiamento che dovrebbe portare
alla Sinistra europea, a una nuova cultura politica, a rapporti sociali
più umani.
La critica
all’autoritarismo, alla burocratizzazione, alla cecità ideologica di tanta
parte di sinistra che si vorrebbe ‘rivoluzionaria’, ha trovato un suo
punto di forza nella determinazione con cui il giornale ha assunto le
tematiche del corpo, della sessualità, della violenza sulle donne, della
riflessione sulla maschilità.
Su questa ‘novità’ non c’è stata l’alzata di scudi che ci si poteva
aspettare, almeno non in modo diretto, esplicito, conflittuale. Sulla
questione di ‘genere’ vale il ‘politicamente corretto’, il timore che,
opponendosi, si finisca per cementare una socialità tra donne che tutti
sanno essere ancora incerta e labile.
Cuba invece appartiene
al patrimonio storico del socialismo reale e continua ad essere vista come
l’ultima ‘resistenza’ all’imperialismo americano. Qui il pensiero critico,
la libertà di giudizio, il confronto delle idee, la non-violenza
incontrano il loro “limite” improrogabile, ma anche, come si capiva bene
dall’articolo di Mauro Consolo, la fuoriuscita di un malumore a lungo
represso, “la goccia che fa traboccare il vaso”.
Come interpretare altrimenti l’affermazione: “Non si tratta di negare
l’autonomia del giornale. Per carità. Lungi da me l’idea di fare un
giornale “velina” di partito. Ma decisamente c’è un limite a tutto. Con
questa ultima, ennesima, vicenda siamo abbondantemente oltre”. (liberazione
5.6.07)
Ma forse sbaglio a
pensare che Cuba sia solo il pretesto ideologicamente più appropriato per
gettare discredito sul nuovo corso aperto dal giornale.
Cuba c’entra molto con l’ordine di valori e priorità che hanno connotato
finora la sinistra anticapitalista, c’entra con l’idea di “libertà
comunista” così come è stata rozzamente sintetizzata in articoli e lettere
uscite sul giornale domenica 5.6.07: “Lei pensa veramente – scriveva un
lettore rivolgendosi a Sansonetti- che chi fa parte del terzo mondo
consideri di primaria importanza muoversi, leggere, stampare?”. “Li ha
mai visti di presenza i bimbi di un qualsiasi paese del centro America?
Macilenti, sporchi, che giocano presso fogne a cielo aperto. Viva dio,
meglio le illibertà”.
Sono ragionamenti che abbiamo già sentito, anche se variano ogni volta
adattandosi a tempi, luoghi, situazioni diverse.
“Borghese” è stato, per la sinistra ‘rivoluzionaria’ degli anni ’70, un
movimento di donne che denunciava il predominio della sessualità maschile,
la cancellazione delle donne come persone, la subordinazione a una visione
del mondo dettata da un soggetto unico.
Privilegio di pochi intellettuali è stato considerato la pratica non
autoritaria che partiva dagli asili per combattere sul nascere la
formazione all’obbedienza, al consenso, alla passività.
La libertà che ha come suo fondamento primo la presa di parola, il
rifiuto della delega, la partecipazione collettiva ai processi decisionali
è stata una delle molle più forti all’allargamento della politica,
l’elemento propulsore di movimenti che avrebbero meritato fin dal loro
nascere, da parte della sinistra istituzionale, ascolto, ripensamenti,
capacità di formulare nuove ipotesi di lotta, nuove forme aggregative.
Il tono della maggior parte delle lettere è da “resa dei conti”. Forse, se
si riesce una volta tanto a non lasciarsi sedurre da spiriti guerrieri,
potrebbe essere semplicemente l’occasione per un chiarimento di idee,
visioni del mondo, prospettive, troppo a lungo rimandato. Per questa
libertà di incontro, confronto, conflitto, Liberazione si è
rivelato davvero un giornale finora “unico”.
questo articolo è apparso su
Liberazione dell'
8 giugno 2007
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