Attenti, questa volta niente saldi

di Lea Melandri

 

In occasione di una scadenza elettorale, la politica viene ad occupare anche per il più distratto dei cittadini un posto non trascurabile nell'ordine dei suoi pensieri. Dai muri delle città, volti sorridenti e accattivanti di candidati elargiscono speranze, promesse, riconoscimenti, protezione, soddisfazione di bisogni e desideri. Alcuni si sono visibilmente fatti stirare le rughe per cancellare, oltre ai segni del tempo, il dubbio che la politica porti con sé, inconfessabili, le ombre di un potere millenario.

La trasparenza e l'inganno, la levigatezza e la rugosità, il sorriso e la smorfia, la solidarietà e l'arroganza, confuse nella magia di una foto costruita ad arte, fanno dimenticare confini, distanze, divaricazioni che tutti conoscono e a cui hanno dovuto ogni volta faticosamente adattarsi. Si dimentica persino, incrociando le fattezze morbide e sensuali di un primo piano femminile, che la pòlis è tutt'ora saldamente in mano a una genealogia di padri e di figli, sempre meno certi di essere il prototipo unico, universale e più compiuto della specie, ma non per questo disposti a cedere privilegi e a deporre la maschera di una falsa neutralità.

Dai segretari dei partiti dell'Unione ci si sarebbe aspettato almeno un segno, una battuta, un cenno di consapevolezza: «Sì, lo sappiamo: siamo solo maschi e nel voluminoso programma che vi presentiamo le donne sono un dettaglio trascurabile, un "soggetto sociale" accanto ad altri, debole, svantaggiato e bisognoso di protezione; le donne sono sempre e comunque il baluardo della famiglia, le madri a cui non devono mancare asili nido, sostegni per gli anziani affidati alle loro cure, congedi parentali adeguati perché possano continuare il lavoro in casa e fuori». Ma non c'è stato neppure questo, per una sinistra che teme sopra ogni cosa il venir meno di una ritrovata traballante "unità", ma che sembra cieca e indifferente di fronte alla divisione sempre più vistosa tra uomini e donne che passa al suo interno.

Negli ultimi mesi, le piazze di tre grandi città italiane, Milano, Roma e Napoli, si sono riempite di donne di ogni età e apparte­nenza: femministe impegnate da oltre trent'anni in gruppi, associazioni; donne singole richiamate da una comune diffusa insofferenza per tutti i pulpiti, religiosi e laici, che parlano e decidono ogni giorno per loro e su di loro; donne che nella vita di un partito o di un sindacato hanno visto ricomparire e consolidarsi antichi ruoli famigliali. Confusi, ma non tanto da non essere visti, molti uomini chiamati non "a dare solidarietà" ma a "ripensarsi" nella appartenenza a un sesso, a una storia che porta ancora i segni del dominio millenario dei loro simili. Non era difficile capire che, se era bastato un breve "messaggio in bottiglia", mandato inizialmente a poche amiche, per fare uscire dalle case più di trecentomila persone, non era certo solo per la difesa della Legge 194 e di alcune essenziali libertà individuali, minacciate dal risveglio di religioni aggressive e integraliste.

Nessuno sottovaluta il pericolo di arretramento culturale e politico che può venire da una Chiesa che pretenda di dettare legge ai parlamenti e di riportare l'intero ciclo della vita, dalla nascita alla morte, sotto il controllo di una verità assoluta, rivelata. E' noto che questo controllo le caste sacerdotali di ogni tempo e luogo lo hanno esercitato priori­tariamente sulla sessualità e sul potere generativo della donna.

Ma ciò che oggi viene allo scoperto in modo inequivocabile è la connivenza tra Chiesa e Stati, che si vorrebbero costituzionalmente laici e democratici, quando si tratta di legiferare sulle cosiddette "questioni di vita". Dal momento in cui sono entrati nella vita pubblica, oltrepassando la barriera del pudore e della privatezza, è stato più facile accorgersi che corpo, sessualità, rapporto uomo-donna, non sono mai usciti dall'orbita dei poteri che si sono imposti sulla scena del mondo, più facile capire quanto la loro presenza/assenza abbia contribuito a configurare la fisionomia delle civiltà, il cammino della storia, delle sue istituzioni, dei suoi saperi e linguaggi.

Il "triste fratello", scriveva Sibilla Aleramo all'inizio del '900, si è condannato ad essere "solo" "ad evolvere, godere, combattere" nella vita. Oggi la metà del mondo, che ha creduto di essersi lasciato alle spalle, chiuso nelle case insieme alla sua infanzia, ai suoi affetti e ai suoi bisogni primari, gli sta invece attorno, lo preme dall'interno delle ferree norme che ha dato al suo vivere sociale, lo chiama a un confronto di valori e di esperienze. Ciò nonostante, contro ogni prevedibile aspettativa, è sempre un sesso a parlare e a decidere per l'altro.

Oggetto del discorso, della volontà e del potere decisionale di altri, le donne lo sono diventate nell'atto stesso fondativo della politica, intesa come luogo riservato a una comunità storica di uomini, depositari unici di una umanità compiuta e, in quanto tali, autolegittimati a decidere sul destino dell'altro sesso. Sull'esclusione/inclusione del primo essere diverso che il maschio incontra nascendo, si è costruita la civiltà, i suoi saperi, le sue istituzioni; si sono definite le forma molteplici che hanno preso di volta in volta il dominio, la violenza, lo sfruttamento, la guerra, tutti visibilmente imparentati con l'amore-odio per il diverso e con la logica contrappositiva: maschile/femminile, amico/nemico, Bene/Male, barbarie/civiltà, ecc.

E' per questo che anche quando si è conquistata la scena pubblica, ottenuto l'accesso alle sue istituzioni e ai suoi poteri, se non si opera una trasformazione dei ruoli sessuali, dei modelli di genere interiorizzati, dei pregiudizi, degli stereotipi che passano quasi invariati da una generazione all'altra, la scala dei valori, delle competenze, dei poteri, messa in opera dal patriarcato, resta sostanzialmente la stessa, e alla donna, «liberto della società moderna, tollerato ma non eguagliato a noi, orfano raccolto perla via, che vive coi membri di una famiglia senza farne parte integrante» - come scriveva a fine '800 Paolo Mantegazza - non resta che affannarsi per diventare, al massimo, un "uomo-femmina", completamento femminile del maschio.

Irrinunciabile diventa perciò che venga ripensata alla radice la collocazione che la politica da sempre ha riservato alla donna: soggetto esterno/estraneo al "contratto sociale", vincolato alla funzione riproduttiva, individualità imperfetta e perciò costretta a vivere della relazione con l'altro: moglie-di, madre-di, figlia-di. E' necessario, perché si possa ripensare la convivenza tra uomini e donne, uscire dalla logica che ha trasformato l'esito di un rapporto nella questione specifica di un sesso solo - la questione femminile - permettendo in questo modo all'uomo di sentirsi non implicato, non responsabile in vicende come l'aborto, la maternità, la cura dei figli e de­gli anziani.

Le donne che hanno manifestato così vistosamente a Milano, Roma e Napoli la loro volontà di "uscire dal silenzio" e di decidere autonomamente dei loro corpi e della loro vita, non nascono oggi alla vita pubblica; hanno dietro, per la consapevolezza nuova di cui sono portatrici, più di un secolo di storia, e davanti, purtroppo, una comunità di uomini ancora tenacemente aggrappati a paure, pregiudizi e privilegi antichi.

Il movimento delle donne, oggi come trent'anni fa, non chiede che si allarghino le maglie della città, affinché si compia la loro piena integrazione, ma pone - Cassandra inascoltata - la necessità che si riconoscano somiglianze sempre più evidenti tra logiche d'amore e logiche di guerra, tra conservazione di sé e distruzione dell'altro, tra modi della politica e modelli di produzione e consumo; preme perché si rileggano, partendo dal sessismo, tutte le forme di assimilazione /espulsione / cancellazione del diverso (la donna, l'ebreo, l'arabo, l'omosessuale), visto, non a caso come portatore di tratti "femminili": razzismo, nazionalismo, pulizia etnica, scontro di civiltà, ecc.

Nella speranza che la vittoria elettorale della coalizione di centro-sinistra venga ad arginare una pericolosa inclinazione populista e antidemocratica, le assemblee di donne che si sono costituite in molte città d'Italia intendono essere una presenza politica continua, un osservatorio critico e al medesimo tempo produttivo di idee e iniziative.

Ciò comporta, per chi governa, l'impegno a confrontarsi con gruppi, associazioni già operanti fuori dalle istituzioni, a garantire da ora in poi pari presenza di donne e uomini in tutti i campi decisionali, a partire dal governo. Comporta, innanzi tutto, ripensare gerarchie date come "naturali" e scontate, come ad esempio quella che vede la politica istituzionale (ma potremmo dire professionale) come la vetta di una piramide, il luogo in cui sarebbero destinate a confluire, lasciandosi il vuoto dietro, tutte le spinte che vengono dalla società civile.

Provando, una volta tanto, a rovesciare base e vertici, qualcuno potrebbe anche accorgersi che il progressivo indebolimento dei partiti e la lontananza sempre più marcata delle istituzioni politiche dalla realtà sociale, dipende in gran parte anche  dall'incapacità di riconoscere nelle pratiche delle donne e dei movimenti che vi si sono in parte ispirati, interlocutori indispensabili, con cui stabilire scambi continuativi e una dichiarata reciprocità.

 

Dalla rivista on line "Golem L'indispensabile", marzo 2006