Il “boia domestico” non ha patria
di Lea Melandri

 

Dopo l’islamo-fascismo di Bush, l’equiparazione tra stragi di Israele e stragi naziste fatta dall’Unicoii, non poteva mancare  -in cauda venenum- lo “stupro etnico”, definizione con cui Francesco Merlo ha pensato di cacciare nel grande calderone dei Mostri della Storia gli stranieri che, in questi giorni, hanno usato violenza a donne italiane. Ma l’insulto più bilioso e immaginifico lo riserva alle femministe, còlte, a suo dire, da amnesia riguardo alle passate battaglie per l’inviolabilità del corpo, e disposte oggi a sacrificare le loro simili sull’altare di uno “stupido terzomondismo”. Di contro a bestie assatanate, venute da fuori a “predare” le “nostre” donne, si ergerebbe la “civiltà della sessualità”, quella capace di proteggersi contro le sue perversioni con buone leggi, ottenute  -ma questo Merlo si guarda bene dal dirlo- da donne italiane, femministe, contro, prima di tutto, la violenza di uomini italiani, in maggioranza congiunti.

Nel gennaio 2000, in una frazione di Cesena, in Romagna, Massimo Predi uccise a martellate l’intera famiglia, madre, padre, moglie e figlia, e gettò i cadaveri dentro un pozzo artesiano nel cortile di casa. L’innamoramento per una giovane ragazza slava, il sogno di un’ “altra” vita all’estero, l’avevano spinto a cancellare ogni traccia del suo passato, a “rimuoverlo”  -in senso letterale- nel sottosuolo della casa. Quando fu fermato alla stazione di Bari, ai carabinieri che l’avevano riconosciuto rispose: “Sono un rumeno”. Nessun giornale sottolineò il fatto che fosse romagnolo, né si preoccupò di fare un qualche riferimento all’idea di famiglia che vige in quella regione, né sembrò sorprendente che la “straniera” o lo “straniero” in quel caso non fossero sinonimo di povertà, arretratezza, tradizionalismo, ma, al contrario, illusione di libertà e piaceri sconosciuti alle ristrettezze del proprio ambiente famigliare.

Se è vero, come si apprende dalle inchieste su scala mondiale, che la prima causa di morte delle donne è l’omicidio per mano di padri, mariti, fratelli, figli, amanti, vuol dire che il “boia domestico” non abita di preferenza in questo o quel paese, ma è per così dire di casa in ogni tempo e luogo. Inoltre, si può pensare che non sia solo l’ “onore” ferito dei suoi convincimenti virili, etici e religiosi, ad armargli la mano, ma anche il suo contrario: il desiderio di liberarsene. Gli uomini dunque uccidono, uccidono preferibilmente o coattivamente le donne, e questo, come si sa, è solo il traguardo estremo di una serie variegata di altre violenze per la maggior parte domestiche. Uccidono, in alcuni Paesi e culture, per ottemperanza a una legislazione arcaica desunta dalla lettura più o meno ortodossa dei testi sacri della loro religione, in altri, invece, in dispregio di tutte le leggi e i diritti acquisiti dagli Stati a cui appartengono. Uccidono sotto le dittature e sotto i governi democratici, nell’Occidente emancipato da remoti vincoli tribali e in Paesi già decimati da povertà e guerre. Uccidono per odio o amore, per affermare il loro potere o per sfuggire all’impotenza, per dare un segno di fedeltà a un ideale comunitario condiviso o per dimostrare che possono farne a meno.

Delitti di questo genere in Italia sono pressoché quotidiani, e i protagonisti finora sono stati indifferentemente connazionali e immigrati, evidenti spesso anche le analogie sia per quanto riguarda il movente che la messa in atto. Allora come mai il caso di Hina ha assunto una così grande rilevanza da interessare opinionisti, intellettuali, e da ultimo anche le maggiori istituzioni politiche: il ministro dell’Interno Amato, il premier Prodi, il Ministero delle Pari Opportunità? Dopo l’arresto a Londra, l’11 luglio 2006, di presunti terroristi britannici di origine pachistana, i giornali si sono riempiti di biografie di giovani nati e cresciuti in Europa, ma affiliati per odio contro l’Occidente al più agguerrito fondamentalismo islamico, un nemico insidioso proprio perché invisibile, apparentemente integrato, straniero alla sua stessa comunità. Il “kamikaze occidentale”  -nella interessante descrizione che ne fa Enzo Guolo su La Repubblica (12 agosto 2006)- è l’esatto opposto di Hina, la ragazza pachistana uccisa dal padre per aver assunto le abitudini e le libertà delle donne italiane. Ribelle, per non dover elaborare “il lutto di una originaria comunità in versione islamista”, che vorrebbe rifondare, il giovane suicida-omicida, con la sua disponibilità alla morte, si va a collocare in un punto cruciale dello scontro Islam-Occidente, che alcuni vorrebbero cristallizzare nel binomio vita-morte, civiltà-barbarie. Sullo stesso snodo, che oggi rischia di precipitare la nostra società in un cerchio senza uscita di ritorsioni, umori razzisti, pulsioni distruttive, Hina diventa a sua volta un “simbolo”: della segregazione che subiscono le donne straniere nelle loro famiglie e comunità di origine, oggi residenti in Italia, e di tutte le donne che ancora “non hanno il coraggio di ribellarsi e di amare”, come ha detto la ministra Barbara Pollastrini.

L’omicidio di Brescia è caduto dunque in un contesto di paura e ostilità crescente  -verso gli immigrati mussulmani, pakistani in particolare-, che non chiedeva altro che trovare conferma. Era inevitabile che la tragedia di Sarezzo, pur sempre cresciuta all’interno di una determinata situazione famigliare  -che non può essere appiattita sulla comunità di appartenenza-, e legata a persone, singoli individui, con le loro storie uniche, irriducibili ai condizionamenti culturali e sociali, trasmigrasse, per così dire, nel gran calderone delle questioni che turbano i sonni della nostra società: prima fra tutte, la presenza crescente di immigrati e il riacutizzarsi dell’antico riflesso, oggi da molti alimentato ad arte, che vede in ogni straniero un nemico; ma anche le politiche che il nuovo governo si accinge a promuovere per favorire processi di integrazione e di più armoniosa convivenza. E’ proprio questa amplificazione, cresciuta sull’onda emotiva e irrazionale purtroppo predominante nella parte più conservatrice e bellicosa del Paese, a produrre travisamenti, conclusioni affrettate, accostamenti discutibili e risposte preoccupanti. Dietro richiesta del Ministero delle Pari Opportunità, intervengono Amato e Prodi, e l’assassinio di Hina si avvia, sia pure tra ostacoli e ambiguità, a diventare un caso dello Stato italiano, chiamato a presentarsi come parte civile nel processo di Brescia. Giustamente qualcuno ha fatto osservare quanto sia delicato “configurare un interesse dello Stato a costituirsi come parte lesa in un processo nato dal fondamentalismo religioso”.

Se la morte di Hina parla di un potere e di una violenza maschile che attraversano lingue e culture diverse, a cui le religioni storiche hanno dato di volta in volta norme e rituali destinati a radicarsi nel senso e nella morale comune, perché ancorarla così vistosamente a quell’assillo che sta diventando per l’Europa la “questione islamica”, associata ormai irresponsabilmente da più parti al terrorismo, alla barbarie, a quello che c’è di animalesco nella specie umana? Sono d’accordo con Adriano Sofri che il riconoscimento delle donne “è oggi la posta prima tra diversi modi di vita” che si trovano a convivere nello stesso Paese, sotto le stesse leggi (Il Foglio 18 agosto 2006), ma perché chiedere agli immigrati di sottoscrivere una specie di “patto d’onore” che li impegni a riconoscere diritti e libertà delle donne, quando così platealmente se ne scordano i nostri connazionali, vissuti qui per generazioni? Perché non dire che c’è una parentela tra la  legge barbara che punisce con la morte la donna che “consuma” rapporti sessuali prima del matrimonio, e l’ombra di “peccato” che la Chiesa cattolica continua a far cadere su comportamenti analoghi, un retropensiero inculcato nel sentire comune e che non ha mai smesso di convivere col suo volto trasgressivo, quale è l’immagine del femminile  e della sessualità nei media?

La discriminazione, lo sfruttamento, le molteplici forme di violenza che subiscono ancora le donne, parlano una lingua universale, e se sembrano talvolta “altre”, straniere tra loro, è solo per una sfasatura di tempi, di “emancipazione”  -quel “ritardo” o “avanzamento” per cui il “delitto d’onore”, oggi giustamente deprecato per l’omicidio di Brescia, ha smesso di costituire un’ attenuante nei tribunali italiani solo trent’anni fa. Intervenire repressivamente, prolungando di anni l’attesa della cittadinanza per gli immigrati, vincolandola a obblighi formali di rispetto per i nostri valori e diritti sulla base magari di un test, come ha fatto lo Stato tedesco di Baden Wùrttember, oltre a essere un provvedimento di buone intenzioni ma inefficace, risulta soprattutto fuorviante per un problema che riguarda prioritariamente l’educazione, la formazione dell’individuo, le relazioni sociali, il confronto delle esperienze, l’allenamento quotidiano alla reciprocità, la conoscenza di ciò che ci rende differenti e simili al tempo stesso a tutti gli altri.

Di fronte al disagio che sta lievitando in una delicata fase di mutazione dell’Occidente, sembra che l’unica strada praticabile sia quella di “tutelare”, “monitorare”: tenere tutto sotto controllo, accumulare dati, statistiche, rapporti che finiranno regolarmente negli archivi  -dopo aver rassicurato i lettori dei giornali-, salvaguardare un’immagine di ordine alzando barriere, imponendo agli immigrati un “tirocinio” o “prova” di civiltà che, a questo punto, o coinvolge anche l’Occidente, la sua storia, i suoi contraddittori “valori”, o il futuro di tutti si fa davvero inquietante.

 

 questo articolo è apparso su Liberazione del 25  agosto  2006