Il sesso dei vinti
di Lea
Melandri

Leila Falzone
L’uomo, scriveva
Otto Weininger all’inizio del ‘900, “può degenerare in animale,
pianta e anche donna”, e portava come esempio popoli che “possiedono”,
al confronto con altri, una “maggiore quantità di femminilità”.
Come per gli omosessuali, l’accusa che è stata mossa di volta in volta
a neri, ebrei, arabi, orientali, è quella di un eccesso di sessualità
che si trasforma in lussuria, seduzione, effeminatezza.
Anche se è difficile
riconoscere negli eccitati torturatori del carcere di Abu Ghraiba, a
Bagdad, la sobrietà del soldato coloniale dell’Inghilterra vittoriana, il
tratto dominante delle umiliazioni corporali e psicologiche inflitte ai
prigionieri iracheni non ha fatto che portare allo scoperto, col favore di
una cultura abituata alla pornografia e al voyeurismo televisivo, il
legame da sempre esistente tra la figura del nemico, del diverso, del
vinto, e quella del sesso che ha conosciuto la più antica e la più
duratura delle dominazioni.
Il denudamento, la
sodomizzazione, l’accusa di “essere gay”, infliggono ferite più pesanti di
un bombardamento perché parlano il linguaggio, noto ad entrambe le parti,
di una maschilità colpita nei suoi timori più profondi e inconfessabili.
La paura di essere visti da altri uomini come “effeminati” resta una delle
spinte più forti all’assunzione dell’identità virile, il retroterra
arcaico indispensabile per l’addestramento alla durezza militare, ma anche
il fondamento ideologico per ogni tipo di sopraffazione su altri gruppi,
popoli e culture.
Forse non è un caso che
i richiami evidenti all’omosessualità, nel suo duplice volto di
pregiudizio “razziale” e sessuale, siano passati in ombra, soverchiati
dalla figura della donna castrante, torturatrice, inedita nella storia
delle guerre, ma non per questo ignota all’immaginario collettivo.
Se nessuno poteva
dubitare che le donne avessero, come tutti gli umani, pulsioni aggressive,
non si comprende l’effetto “catastrofico” che i commentatori hanno
attribuito all’immagine di una emancipazione prevedibile, che assimila la
vittima all’aggressore e le permette di vendicarsi su un uomo-femmina
consegnato inerme alla sua “rabbia” di donna e al suo “orgoglio” di
soldatessa di un esercito di “liberazione”. C’è chi ha parlato della
caduta di un presunto “primato” etico femminile, confrontandola con
l’”apocalisse fallocentrica” dell’11 settembre a New York, chi, al
contrario, vi ha visto la conferma del potere di vita e di morte riservato
alle donne dalla loro natura procreatrice.
Il rapporto tra i
sessi, riconosciuto come parte in causa in un conflitto che va fatalmente
a configurarsi come “scontro di civiltà”, non sembra in ogni caso uscire
dal suo aspetto più evidente: i ruoli storici del maschio e della femmina,
l’urto tra arcaismi e modernità. Più inafferrabile, perché coperta
dall’insicurezza di una società ancora prevalentemente maschile, resta la
costellazione di valori e gerarchie legata al “femminile”, genere
sconfinante, contagioso, imparentato con il nulla, con l’assenza, con la
morte, ma anche con l’eccesso, la vitalità dei corpi, l’origine della
vita.
questo
articolo è uscito in Carnet – luglio 2004
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