Il racconto della vecchia levatrice

di Ferdinanda Vigliani

 


 

Quando i Kurgan invasero la città era prossimo il tempo del raccolto. I cavalli degli invasori calpestarono il nostro grano, che in parte venne anche incendiato e la città, la nostra città bellissima, posta alla confluenza di due fiumi dalle acque limpide e pescose, la nostra città priva di mura, fu anche quella ridotta in cenere.

 

Più tardi avrei visitato altri luoghi. Città che avevano dovuto rinchiudersi, rendersi irraggiungibili come nidi d’aquila. E avrei capito che la vicinanza dei Kurgan rende la gente sospettosa e ostile. Che tutto viene riportato all’essenziale. Ciò che non è direttamente legato alla pura sopravvivenza è inutile. E dannoso. Ma quando i Kurgan, montando i loro ispidi cavalli, piombarono come un uragano dal nord-est sulla nostra città, io questo ancora non lo sapevo. Avevo otto anni. Non capivo, ma potevo vedere e ricordare.

 

La nostra città non aveva bastioni, né cittadelle, né fortificazioni, né armi, se non quelle che venivano usate per la caccia. Nella nostra città vi erano molte scuole, ma in nessuna di queste si apprendevano le arti della guerra. Avevamo molti luoghi di culto dedicati alle grandi dee madri dell’abbondanza e della fertilità e i nostri morti più illustri, che erano donne e uomini che avevano avuto cariche sacerdotali, oppure erano stati sapienti, artisti, poeti, riposavano nel grembo delle dee nei loro templi. Fino all’arrivo dei Kurgan noi non conoscevamo la lugubre pompa dei sepolcri dei guerrieri, armati perfino nella tomba. Da morti, i loro capi vengono onorati con scabri monumenti di pietra, ma anche i defunti di rango inferiore hanno diritto al loro cumulo di sassi, come se, senza quel peso sul petto, i morti potessero sollevarsi dal loro sonno a perseguitare i vivi.

 

La nostra città fu quasi ovunque rasa al suolo. Mio padre era stato il conservatore della casa delle tavolette di cera, su cui venivano annotate le cose più importanti. Quando le fiamme raggiunsero il deposito questo si incendiò con un orribile respiro di agonia. In pochi istanti il fuoco si portò via l’intero edificio e con questo la vita di mio padre. Mi accorsi allora che non avevo potuto imprimere nella memoria i suoi lineamenti, il colore dei suoi occhi. Da quel momento per molto tempo continuai a cercare di ricordare come era stato il viso di mio padre, come suonava il timbro della sua voce, senza mai riuscire a ricostruire un’immagine che se l’avessi di nuovo incontrato me lo avrebbe fatto riconoscere.

 

* * *

 

Fu a quel punto che mia madre mi ordinò di andarmi a nascondere sotto l’altare della dea scrofa, mia protettrice. Io esitavo a separarmi da lei. Così mia madre mi disse che era suo dovere di sacerdote della grande Madre proteggere l’altare della dea e aggiunse che, poiché quasi certamente non ci saremmo più incontrate in questa vita, mi lasciava la sua benedizione, con l’ordine di avere coraggio.

 

Nel prendere congedo mia madre non mi abbracciò, forse se l’avesse fatto non avrebbe più trovato la forza di allontanarmi, ma ricordo il suo sguardo quando mi consegnò questo piccolo amuleto, questo che ancora tengo qui sul cuore e mi dà forza. È una piccola figura scolpita nell’avorio: il corpo di una donna dal ventre tondo come la luna piena. Sulla testa i capelli sono acconciati in tredici minuscole trecce. Tredici come le lune che vanno da un autunno all’altro, come il sangue che vediamo noi donne in questo stesso tempo.

L’avorio è levigato dal tocco delle mani di mia madre e dalle mie dopo quelle di lei. È stato posato per molti autunni sul suo seno e per troppo tempo sul mio. È ora adesso che passi alle mani e al seno di un’altra donna. Ancora non ho deciso quale delle mie figlie o delle mie nipoti.

 

Dal canto mio, io credo di avere ubbidito a mia madre. Nella mia vita quasi tutto è mancato, tranne il coraggio. Adesso sono vecchia, ma non ho mai dimenticato e ancora ho il coraggio di ricordare che il corpo di mia madre per diverse settimane restò esposto ai corvi. E quando la sorveglianza dei Kurgan si fu un po’ allentata, io potei farmi coraggio, piccola come ero, e con l’aiuto di quello che era stato fin dalla nascita il mio migliore amico e di sua nonna, andai di notte a levare dal patibolo ciò che di mia madre rimaneva. Ero accecata dalle lacrime, ma fu il coraggio a non farmi smettere di scavare nella terra dove mia madre avrebbe voluto essere sepolta.

 

Trovammo un posto un po’ fuori da quella che era stata la nostra città e lontano dalle tende dei Kurgan, all’ombra di una giovane quercia. Sapevo che a mia madre sarebbe piaciuto dormire sotto un albero. Questo sarebbe cresciuto nutrendosi del suo corpo e le radici avrebbero abbracciato le sue ossa.

 

Di recente sono ritornata nel luogo dove mia madre riposa e ho visto che l’albero è ancora al suo posto ed è diventato più maestoso. Come se qualcosa dell’autorità di mia madre gli fosse stato trasmesso.

 

* * *

 

Ada, la nonna del mio amico Erin, era stata per tutta la vita levatrice e dunque era particolarmente devota alla Dea Scrofa, protettrice dei parti, a cui io alla nascita ero stata dedicata. Nascosta sotto l’altare della dea, come mia madre mi aveva ordinato, aspettai tremando che qualcuno mi aiutasse e la dea dovette esaudire le mie preghiere, perché Ada arrivò, con Erin. Per me, non abituata alla solitudine, alla paura, al freddo e alla sete, la vista di due visi amici fu ciò che mi riportò alla vita. Ada ci disse che dovevamo nasconderci e fare presto.

 

Già dovevamo considerarci molto fortunati di non essere ancora stati scovati. Si preoccupava poco per se stessa, convinta che i Kurgan non si sarebbero interessati ad una vecchia. Sì, avrebbero sempre potuto ammazzarla, anzi, considerandola inutile, era molto probabile che lo facessero. Ma noi bambini correvamo un rischio peggiore. Saremmo diventati schiavi. Non è che noi capissimo bene che cosa in particolare preoccupava la nonna Ada e che cosa essere schiavi volesse dire. Da noi la schiavitù era ancora più che ignota: inimmaginabile. Ma Ada ne aveva sentito parlare, conosceva gli usi crudeli dei nostri invasori.

 

In un certo senso tutti presso i Kurgan erano in qualche modo in stato di schiavitù. La loro vita era dominata dal timore e dalla violenza. O meglio, non poteva essere altro che dominata, o dominante. Tutti erano sempre al tempo stesso servi e padroni e nessuno era libero.

 

La stranezza di tutto questo per noi bambini rendeva incomprensibili alcune delle raccomandazioni di prudenza che la nonna ci rivolgeva continuamente, ma eravamo cresciuti nella convinzione che gli insegnamenti degli anziani vanno altamente onorati e dunque rispettammo i consigli della vecchia, il che, penso, ci salvò la vita.

 

Erin, sua nonna e io andammo dunque a cercare rifugio in una piccola costruzione quasi interamente nascosta dalla vegetazione, in un punto molto folto del bosco che si estendeva a ovest di quella che era stata la nostra città. Scelto perché era un luogo appartato in cui la vecchia levatrice si ritirava a meditare in certi periodi dell’anno e dove qualche volta ospitava le future madri. Si diceva che quel luogo tranquillo favorisse i sogni profetici e che attraverso questi fosse possibile conoscere il destino del nascituro.

 

Nell’avvicinarci al minuscolo riparo vedemmo tra gli alberi allontanarsi una scrofa seguita da quattro cinghialetti col mantello ancora percorso da quelle striature che si vedono solo nelle loro prime due lune di vita. Allora ci riconfortammo pensando che la dea ci aveva accordato la sua protezione e dato un segno della sua presenza. Inoltre la giovane età degli animali era un’ispirazione di speranza per il futuro.

 

Il mio amico Erin aveva portato un arco e la sua abilità nella caccia fu in quel periodo una bella risorsa. Io, che avevo due anni meno di lui, ero abituata fin dalla più tenera età a seguirlo come un satellite e la mia grande ammirazione faceva sì che imitassi tutto quello che lui faceva. Così anch’io acquisii una certa capacità di procurare la cena, ma mai prendemmo di mira i cinghiali, che fin dal giorno del nostro arrivo considerammo come i nostri protettori più sacri.

 

Il nostro sforzo di essere dimenticati fu premiato. Riuscimmo a non morire di fame quando arrivò l’inverno, soprattutto grazie al furto. Erin e io ci avvicinavamo non visti all’accampamento dei Kurgan e l’abilità che avevamo appreso nel trattare gli animali faceva sì che riuscissimo a farci seguire da qualche capra. Fu grazie al latte e alla carne delle capre rubate che potemmo sopravvivere. Noi non ci azzardammo mai a coltivare dei campi o degli orti nei pressi del nostro rifugio, dato che avrebbero reso visibile la nostra presenza. Ma seminammo ai margini del bosco qualche manciata di grano spigolato di nascosto nei campi e del farro piccolo, un po’ d’orzo, delle fave. Spesso trovavamo le nostre coltivazioni distrutte dagli animali o mietute da qualcuno che non eravamo noi, ma tutto il nostro tempo lo dedicavamo all’arte di sopravvivere e i pochi successi che riuscivamo ad ottenere erano in qualche modo sufficienti.

 

La nonna Ada invecchiava rapidamente. Avrebbe avuto bisogno di condizioni di vita meno dure e il conforto che noi potevamo darle era ben poco. Resistette al freddo e ai dolori che facevano scricchiolare le sue ossa senza mai lamentarsi e quando alcuni anni dopo morì, ci aveva insegnato qualcosa della sua arte di levatrice e guaritrice.

Il vuoto che lasciò fu tremendo. Il rifugio nel bosco divenne la sua tomba, dove la lasciammo in posizione seduta, avvolta nel suo mantello e circondata dalle tredici statuette della dea, una per ciclo lunare, che devono stare nella tomba di una donna di medicina. Poi chiudemmo e occultammo l’ingresso del rifugio perché la nonna potesse riposare in pace.

 

* * *

 

Noi cominciammo a spostarci, insieme con le capre e con un grosso cane che un giorno aveva cominciato a seguire Erin nel bosco e non lo aveva più lasciato.

Si era prodotto uno scambio veramente curioso. I Kurgan, che erano sempre stati pastori nomadi e razziatori, dopo avere invaso le nostre belle terre erano diventati sedentari, e forse un po’ meno feroci. Noi avevamo dovuto abbandonare tutto, eravamo diventati ladri e pastori di capre rubate e per non essere presi ci spostavamo continuamente. Col tempo incontrammo altri del nostro popolo che avevano avuto un destino simile al nostro e capitò che unissimo le nostre strade.

 

Quando ci guardavamo vedevamo dei barbari. Noi che eravamo stati abituati a curare tanto il nostro aspetto, andavamo in giro vestiti di pelli, i piedi protetti da sandali di corteccia d’albero. Gli uomini erano spaventosamente irsuti e tutti avevamo i capelli arruffati e incolti. Il nostro aspetto selvaggio era sovente oggetto di commenti ironici quando la sera ci riunivamo intorno al fuoco. Un lusso che ci potevamo permettere raramente, solo quando eravamo abbastanza lontani dai villaggi dei Kurgan. Una delle tante cose che si danno per scontate quando si è ricchi e sicuri è il conforto di un fuoco acceso, che scalda e illumina le ombre della notte.

 

Adesso guardo queste braci che ormai languiscono e penso che adattarci e conservare qualcosa di ciò che eravamo stati, fosse tutto ciò che si poteva fare. Per i nostri figli la vita nomade è stata la sola che abbiano conosciuto. E i nostri nipoti già non sono più in grado di leggere i simboli incisi sulle statuette delle dee madri.

 

Alle mie figlie ho cercato di insegnare alcune cose indispensabili, come le proprietà di certe erbe, il valore nutritivo di piante e funghi. Erin ha trasmesso ai nostri figli le sue conoscenze sulle abitudini degli animali. Abbiamo potuto coltivare poco il loro spirito, come del resto è stato poco coltivato il nostro, ma le figlie hanno imparato da me l’arte della levatrice e l’hanno trasmessa alle loro figlie, così che poche di noi muoiono nel dare alla luce. Adesso capita anche che siamo mandate a chiamare dalle donne Kurgan quando un parto si presenta difficile.

 

Finora la Dea mi ha aiutato e ancora non ho visto negli occhi di nessuna delle mie figlie e nipoti quello sguardo passivo e opaco che è così comune negli occhi delle donne Kurgan. Dirò che la Dea mi ha protetto se riuscirò a morire senza mai vedere questo spegnimento negli occhi di nessuna donna vicina al mio cuore.

 

Cercherò di morire senza odio, perché l’odio pesa sull’anima. Infatti oggi posso dire di non odiare i Kurgan. Si può forse odiare una valanga che ti travolge e ti schiaccia, o un incendio che distrugge il tuo mondo, o un fiume in piena che ti trascina nella sua corrente? Non si odia. Si cerca di resistere. Ciò che ho odiato e ancora non posso pensare senza un moto di dolore e di umiliazione è il loro disprezzo per ciò che c’è di più sacro. I Kurgan chiamano padre il loro dio crudele, ma che padre è quello che si gloria dei loro delitti? Loro li chiamano guerre vittoriose e onorano altamente uomini sanguinari che hanno sterminato e ridotto in schiavitù interi popoli. Disprezzano la bontà, la dolcezza, la provvidenza della Madre. Per loro le madri non hanno neppure diritto a lasciare il loro nome ai figli che generano.

 

Questo sì, questo disprezzo io ancora lo odio. Ma spero che la dea mi aiuti a distaccarmene completamente nel momento in cui raggiungerò mia madre nella terra. Lei mi ha insegnato che la vita è eterna, mi ha lasciato in eredità la sua forza e mi ha ordinato di avere coraggio. Quando andrò da lei, spero di avere pace.

 

16 aprile 2005