La strada di Levi

di Sara Sesti

Il 27 gennaio 1945 lo scrittore Primo Levi viene liberato dal campo di concentramento di Auschwitz. Dopo un anno di prigionia, riacquista la libertà e può tornare a casa. Mentre il ricordo di tutto quello che è accaduto, rimane indelebile nella sua memoria, impossibile da cancellare, Levi inizia un lungo viaggio di dieci mesi per rientrare nella sua Torino. Attraversa Polonia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria, Austria e Germania, fino a tornare finalmente in Italia, incontrando personaggi enigmatici che ritrarrà nel suo romanzo "La tregua".

Sessanta anni dopo il regista Davide Ferrario, accompagnato dallo scrittore Marco Belpoliti, compie lo stesso tragitto attraverso l'Europa di oggi segnata dal post-comunismo. Il loro "viaggio della memoria" si intreccia con il ritratto dei moderni paesi europei, in cui i resti dell'impero sovietico si alternano alla sconcertante povertà dei villaggi di emigranti, alla devastazione nei dintorni di Chernobyl e al timore che il seme neo-nazista stia attecchendo.

 

L a voce narrante di Umberto  Orsini legge le pagine toccanti di Primo Levi, dando così voce ai moltissimi deportati ammutoliti dal dolore e dall'orrore come mio padre Carlo Sesti ( 1923-2000), deportato per motivi politici a Mauthausen quando aveva 21 anni e liberato il 14 aprile 1945.

Ha lasciato il suo libretto di lavoro forzato, con una foto da cui è stato tagliato il cartello che gli avevano appeso al collo per schedarlo.

 

Carlo Sesti

 

 




Lettera a mio padre

Caro papà,

ci sono delle cose di cui quando eri vivo non hai mai parlato e  delle domande che non ho mai osato farti. Sei stato deportato a Mauthausen e trasferito in un campo di lavoro forzato quando  avevi venti anni. La nonna mi raccontava che allora eri bello e spavaldo, che suonavi la chitarra e piacevi molto alle ragazze. La  deportazione durata due anni però ti aveva fatto crescere in fretta e segnato molto. Quando sei tornato a casa il tuo carattere era diventato malinconico e chiuso.

Dell’esperienza del lavoro forzato non ha mai voluto parlare con i tuoi familiari, come se il carico di orrore e di dolore che ti portavi dentro ti avesse reso muto. Questo fatto mi ha colpito molto. Ancora oggi mi chiedo i motivi del tuo silenzio, ma  non sono certa che le spiegazioni che mi do siano proprio quelle vere.
Forse, all’inizio, il silenzio era l’unico modo per lasciar guarire le ferite. Capita la stessa cosa ai bambini che subiscono una violenza da parte degli adulti…
Forse avevi paura che a raccontare certe esperienze, gli altri ti compatissero…
Forse temevi di caricare la tua famiglia di un fardello troppo pesante e desideravi guardare avanti.

Alla fine degli anni ‘60 molti ex deportati hanno iniziato a raccontare, a rilasciare le loro testimonianze.  Allora, forse, avevi già rielaborato e superato il momento più doloroso, ma hai continuato a tenere la tua esperienza dentro di te. Per quale motivo? Di certo eri rimasto un uomo di poche parole, uno di quelli che parlano solo se hanno qualcosa di consistente da dire; non ti piacevano i discorsi che sconfinavano nella retorica o nel patetico e  non aspiravi a riconoscimenti particolari: insomma non volevi una medaglia. Conoscendoti bene, però l’ipotesi più credibile è che tu non parlassi pubblicamente della tua deportazione semplicemente perché alla fine ritenevi che durante il fascismo non avevi fatto niente di particolare, soltanto il tuo dovere e di conseguenza non volevi costruirti un'identità speciale. Quando parlavi di altri ex-deportati che conoscevi, sentivo che ti consideravi uno normale, uno come tanti. Molti erano stati coinvolti come te senza essere attori di spicco e tu pensavi di aver compiuto soltanto il tuo compito, niente di più.

Dopo la tua morte, avvenuta nel 2000, ho presentato la richiesta alle Istituzioni tedesche per il risarcimento dei danni subiti dagli ex deportati ai lavori forzati. Dopo un anno, mi hanno informato che la domanda non “soddisfaceva ai requisiti”. Questa risposta l’ ho trovata e la trovo ancora oggi davvero offensiva: come se avessi inoltrato una semplice richiesta di pensione o per avere la tessera del tram!!! E’ sconvolgente che i due anni che hai passato nei campi di lavoro vengono considerati ancora oggi dalle Istituzioni tedesche come un semplice stage all’estero, un’esperienza come un’altra da aggiungere al curricolo.

Ti abbraccio forte Sara

 

 


15-11-07

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