IN RISPOSTA A ROSSANA ROSSANDA 
         
        L'altra metà del lavoro  
        di Lia Cigarini,  Giordana Masotto, Lorenza Zanuso 
       
         
        La flessibilità imposta dall'economia neoliberista non rappresenta  un'opportunità per le donne. Ma il tempo pieno, sempre uguale per tutta la  vita, non può più essere considerato un modello a cui adeguare lotte e  obiettivi. In questo quadro, chiudersi nell'alternativa fra «più stato» o «più  mercato» impedisce di sperimentare nuovi modi di accogliere il conflitto, che  di per sé costituisce un passaggio essenziale per cambiare l'organizzazione del  lavoro. 
         
        L'articolo di Rossana Rossanda (il manifesto, 30 maggio), a commento del nostro  Sottosopra - Immagina che il lavoro ,  merita alcune precisazioni e ci spinge a riflessioni più generali che ci  piacerebbe aprissero sul manifesto un confronto, secondo noi necessario e  urgente. Rossanda ci invita: «vogliamo discuterne?». È un invito che abbiamo  molto apprezzato e che facciamo nostro. Lei dice che noi vediamo nella  flessibilità una opportunità di conciliazione maternità/lavoro. Questa  obiezione gioca sull'ambiguità del termine flessibilità (delle persone per il  lavoro o del lavoro per le persone?). Certamente noi non abbiamo mai sostenuto  che la flessibilità imposta dal mercato del lavoro neoliberista sia  un'opportunità per le donne. 
        Noi affermiamo - e con noi lo affermano da tempo centinaia di economiste e  studiose in tutto il mondo - che il modello di lavoro full-time full-life ha  una storia specifica, fondata su una specifica divisione del lavoro tra i  sessi: gli uomini al lavoro retribuito e le donne a casa. Diciamo che, con la  partecipazione femminile di massa al lavoro per il mercato (unitamente al controllo  della procreazione e alla più generale consapevolezza nata con il movimento  delle donne), questo modello non è più sostenibile; e che va rimesso in  discussione per tutti, uomini e donne. In altre parole: il tempo pieno, sempre  uguale, per tutta la vita, non può più essere considerato il modello cui  uniformare lotte e obiettivi. Non solo non è perseguibile, ma neppure  desiderabile. Così come non è né perseguibile né desiderabile uno sviluppo  basato sull'aumento infinito dei consumi. 
              Processi di adattamento sociale 
        Siamo ben consapevoli che il mercato del lavoro non è più quello degli anni  Sessanta-Settanta. Vediamo e ascoltiamo le condizioni di precarietà e ricatto  cui sono costretti in particolare i giovani nelle attuali condizioni del  mercato del lavoro: donne e uomini, perché questo cambiamento non riguarda  specificamente le donne. Eppure, riteniamo imprescindibile mantenere fermo quel  punto di analisi, cioè la radicale trasformazione dell'idea stessa di lavoro  determinata dalla presenza in massa delle donne anche nel lavoro retribuito.  Perché vediamo che quel punto di vista non solo fa chiarezza sulle trappole  paritarie (come perfettamente spiega Ida Dominijanni a proposito dell'età  pensionabile, sul manifesto del 5 giugno), ma apre a una diversa consapevolezza,  diversa anche dalla solita analisi sul lavoro postfordista. E crediamo che, se  non ci sono impuntature ideologiche e steccati identitari, questa  consapevolezza dia forza alla soggettività politica delle donne, e possa  mettere in comunicazione anche donne e uomini che usano chiavi di lettura  diverse. A questo primo e fondamentale punto di analisi, noi aggiungiamo un  corollario: la completa socializzazione del lavoro di riproduzione attraverso  merci o servizi privati e pubblici, che viene proposta come «soluzione» sia  nelle impostazioni marxiste classiche sia dai teorici del pieno impiego del  capitale umano uomo-donna, non è né credibile né desiderabile. E quindi va  rimesso sul piatto della politica e dell'economia l'insieme del lavoro  necessario per vivere, il suo senso per i singoli e la collettività, e la sua  distribuzione per tutti. E ipotizziamo che in questa discussione le donne  possano portare conoscenza e esperienza, un sapere storico che non va buttato  via. 
         
        Rossanda dice anche che non teniamo in sufficiente considerazione la  cancellazione dello stato sociale, i bassi salari delle migranti, e i  differenziali salariali uomo-donna. Concordiamo che siano temi di fondamentale  importanza, ma riteniamo imprescindibile discuterne a partire da una seria  considerazione dell'insieme del lavoro necessario per vivere. Senza poter  entrare qui nel dettaglio, osserviamo solo che nessuna di queste tre cose è  direttamente correlata alla maggiore o minore flessibilità dei tempi di lavoro.  L'assetto attuale del mercato del lavoro italiano, con i suoi squilibri  generazionali e territoriali, etnici e sessuali, si è realizzato all'ombra di  un silenzioso intreccio di interdipendenze tra lavoro di produzione e  riproduzione, il cosiddetto familismo all'italiana. 
         
        C'è chi vede questi processi solo o prevalentemente come colpevole sfruttamento  di alcune donne su altre donne, o anche come pura e semplice mercificazione del  lavoro di cura. A noi questo pare miope. Si tratta piuttosto di un gigantesco  processo di adattamento sociale che non è possibile capire né smontare se non  si riparte proprio dal guardare agli andamenti e alla qualità del lavoro  retribuito di donne e uomini, migranti comprese, dal punto di vista del lavoro  di riproduzione dell'esistenza, e non viceversa. Quanto ai differenziali  salariali uomo-donna, oltre a essere di controversa misurazione, sono in Italia  i più bassi d'Europa (4,9%, vedi Mark Smith su www.ingenere.it) e più in  generale derivano sostanzialmente dal fatto che in tutto il mondo occidentale uomini  e donne che lavorano hanno caratteristiche personali diverse, e fanno lavori e  occupano posizioni differenti nel mercato del lavoro: un fenomeno per il quale  si richiede una spiegazione ben più complessa che non la «denuncia» della  flessibilità. 
        Infine, nell'alternativa secca o «più stato» o «più mercato», richiamata da  Rossanda, di certo non è venuta da parte femminista la richiesta di più  mercato. Restare chiuse in quell'alternativa, che è troppo rigida e troppo  semplice, impedisce, ad esempio, di ragionare su «un welfare a misura di  relazioni» come abbiamo fatto con Laura Pennacchi, oppure di cogliere dinamiche  inedite tra locale e globale e di sperimentare forse anche nuovi modi di agire  il conflitto. 
         
        Quando poi parliamo di maternità è chiaro che non intendiamo solo maternità  biologica, né tanto meno destino identitario. 
        Condividiamo le osservazioni di Rossanda. Figurarsi se non sappiamo che esiste  anche un lato oscuro della maternità. Perfino nel nostro gruppo ci confrontiamo  continuamente con tutto ciò: delle otto autrici del Sottosopra, quattro sono  convinte madri biologiche e quattro convinte non-madri biologiche. Dice  Rossanda: «È un fatto che un senso della riproduzione va ricostruito fra noi e  con gli uomini scombussolati dalla caduta del classico ruolo paterno». Ma è  proprio per ricostruire quel senso che dobbiamo rimettere al centro  dell'analisi politica tutto il lavoro necessario per vivere. 
        Su questo tema, la nostra esperienza di confronto con molte donne ci fa dire  che l'affermazione del «doppio sì» - cioè di due desideri per molte  irrinunciabili, lavorare e stare con i figli - lungi dall'essere percepita come  elitaria, o dall'inchiodare ognuna al proprio vissuto, fa tirare sospiri di  sollievo, apre spazi importanti di libertà personale e abbatte steccati. La  fortuna che l'espressione «doppio sì» - non è un obiettivo politico in senso  classico - ha avuto, superiore alle nostre aspettative e negli ambiti più  diversi, ci dice che quelle parole danno forza simbolica a ogni singola donna,  madre o no, perché valorizzano la sua differenza e le dicono che è possibile  ripartire anche da lì. Per fare cosa? Per narrarsi pubblicamente, per  contrattare, per agire politicamente. 
              Agire il conflitto 
        In conclusione: l'analisi di Rossanda, come altre che leggiamo, ci appare  ancorata a una specie di realismo depresso. Al contrario noi saremmo  caratterizzate dall'ottimismo elitario. Siamo invitate a scendere sulla terra e  a confrontarci con i duri fatti della realtà. A non prendere il desiderio per  sogno, a misurarci con la necessità del cambiamento e del conflitto. Eppure nel  nostro testo affermiamo con forza la necessità di agire la contrattazione a  tutti i livelli, tra sé e sé, con l'altra/o, in casa e nel lavoro. Di  riscoprire dal nostro punto di vista la conflittualità. Togliendo a questa  parola l'interdetto sociale che ormai si è imposto, che la associa a  negatività, debolezza e fallimento, schivando contemporaneamente la modalità  bellicosa che ha come misura il controllo del potere. Agire il conflitto, al contrario,  vuol dire riconoscere sé e l'altro nella loro differenza. Agire il conflitto  per evitare la guerra, che invece vuol dire definire l'altro «nemico» per  poterlo annientare. Contrattare per dare spazio pubblico alla differenza. 
        Per tutti questi motivi, ci viene il dubbio che una difficoltà a confrontarsi  tra chi ha a cuore donne-lavoro-politica, stia forse anche nel fatto per cui  alcune scommettono sulla forza della libera soggettività femminile di cambiare  il senso e l'organizzazione del lavoro, mentre altre non possono sottrarsi alla  sofferenza femminile, doppiamente segnata dalla globalizzazione e dal  patriarcato, un morto vivente che sa ancora colpire. 
         
        Luoghi di parlanti 
        Per essere più chiare: il nostro testo non dice nulla di sostantivo su quello che  le donne sono o dovrebbero essere. Né propone un compiuto disegno di riforma  del mercato del lavoro e del welfare, del part-time o dei congedi parentali in  un'ottica conciliativa. Contro ogni neutro universale (maschile e femminile),  afferma piuttosto la singolarità di ognuna, e scommette sulla possibilità di  ognuna di parlare di sé, del mondo (e del lavoro), sia tra sé e sé che insieme  ad altre/i. È una possibilità eternamente contesa, e difficile da praticare, ma  è il sale della vita. È una realtà che già affiora in quel mondo ricco e  difficile da catalogare che è la rete. Quando diciamo che ci vogliono, e ci  sono, «luoghi di parlanti» parliamo di questa possibilità, non di altro: creare  luoghi in cui le donne possano conoscersi e riconoscersi, scambiare  valutazioni, dare parole alle difficoltà, mettere sul piatto i propri bisogni,  lasciar affiorare i desideri, attirare anche gli uomini al confronto. 
        Per incominciare a delineare la mappa dei desideri di cui parla Rossanda,  perché è vero che «neanche il desiderio è così semplice». Creare realtà di  donne e uomini che si parlano, che trovano se stesse/i insieme ad altre e  altri. Che per questa via diventano singolarmente soggetti politici. O ci  crediamo che le donne hanno questa forza, o non ci crediamo. Vogliamo ripartire  da qui? 
        
      da Il  manifesto, 10 Giugno 2010 
       
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