FRAMMENTI DALLE CRONACHE

Incollo qui di seguito frammenti di notizie pubblicate sulla stampa quotidiana, alcune curiose, altre assurde, altre ancora preoccupanti.
Naturalmente vanno prese con spirito critico.

di Floriana Lipparini


Second Life

 

LONDRA - Primo divorzio al mondo (passato alle cronache) dopo un tradimento virtuale. Una donna inglese si è accorta che il marito aveva una relazione su Second Life e ha deciso di chiedere la separazione. Entrambi appassionati di community multi-utenti dove si vive una vita parallela, Amy Taylor e David Pollard - 28 e 40 anni - si erano conosciuti nel 2003, e quindi innamorati, su una chat e il giorno del matrimonio, nel luglio del 2005, avevano replicato la cerimonia anche su Second Life ispirandosi alle nozze di David e Victoria Beckham. Ma è stata proprio la dimensione virtuale a rovinarli.

DETECTIVE VIRTUALE - Secondo quanto racconta il Daily Mail, i due trascorrevano più tempo su Internet che nella realtà. E un giorno la donna ha scoperto l'avatar del marito in una posizione compromettente con una prostituta. «Sono diventata pazza - racconta -: ero così ferita che non potevo credere a quel che era successo». Ma Amy non ha gettato la spugna: usando la moneta virtuale (il Linden Dollar) utilizzata dai residenti, ha assunto un detective per indagare sull'adulterio. La situazione è precipitata quando, ad aprile, ha scoperto un nuovo tradimento del "marito". «Abbracciava una donna su un sofà e l'atteggiamento era molto affettuoso». Secondo Amy, il marito faceva cyber-sesso con un'utente in Usa e per quanto i due non si fossero mai incontrati di persona, Amy si è sentita ugualmente tradita: «Gli ho chiesto di farmi leggere le conversazioni, ma lui ha spento il computer: ha confessato che aveva contatti con una donna americana da una settimana o due, ma ha detto pure che il nostro matrimonio era finito, che non mi amava più e che non avremmo mai dovuto sposarci».

«ERA SEMPRE AL COMPUTER» - Sabato la donna andrà dal giudice per chiedere il divorzio. «L'avvocato non era affatto sorpreso - spiega -. Ha detto che era il secondo caso di divorzio collegato a Second Life che le capitava in una settimana». E anche se Internet le ha rovinato la vita non ha intenzione di rinunciarvi: «Vado ancora online, ma non così tanto come prima». E si è già consolata: «Ho conosciuto qualcun altro e viviamo insieme. Sono molto felice: so che suona strano, ma mi fa bene». Il marito, che ha conversato con il Daily Mail solo attraverso Second Life, ha detto che «non pensa di aver fatto nulla di male»; e ha aggiunto che il vero problema era la relazione con quella che, per tre anni, è stata sua moglie. «Non ha mai fatto nulla in casa: stava solo al computer a fare giochi di ruolo. E se volevo trascorrere un po' di tempo con lei glielo dovevo chiedere, ma lei si staccava sempre a fatica». (14 novembre 2008)

 

GIAPPONE, UCCIDE IL MARITO VIRTUALE
Ma finisce in carcere davvero (dal nostro corrispondente Enrico Franceschini)

LONDRA - Il reato è omicidio: una donna di 43 anni avrebbe eliminato il marito di 33. L'altro giorno la polizia è andata a bussare alla sua porta e l'ha arrestata. Movente: la donna era furiosa perché l'uomo le aveva imposto il divorzio, senza dare spiegazioni, dopo una lunga relazione. Cose che succedono, ma che in questo caso stabiliscono un precedente: perché il delitto è accaduto nel mondo virtuale, mentre l'arresto è avvenuto in quello della realtà.

E' successo in Giappone, secondo quanto riferisce stamane la stampa britannica, ed ecco com'è andata (i nomi non sono stati resi noti per ragioni legali, secondo l'Indipendent di Londra). I due si erano conosciuti in un gioco su internet chiamato MapleStory, in cui i giocatori creano un personaggio, avviano relazioni, possono sposarsi e perfino fare sesso, digitalmente s'intende, ovvero in una realtà virtuale (il gioco ha 50 milioni di giocatori in tutto il mondo, 9 milioni soltanto in Giappone). Il lui e la lei di questa storia, infatti, vivevano uno a Tokyo, l'altra a Sapporo, e non si sono mai incontrati faccia a faccia. Però si piacevano, o meglio si piacevano i personaggi da loro creati, tanto da sposarsi, sempre all'interno del gioco, e da avere rapporti quotidiani (sessuali e no).

Finché a un certo punto lui si è stufato e, con un'opzione prevista dal gioco, ha divorziato. Lei non l'ha presa bene. E poiché precedentemente aveva ottenuto, attraverso il gioco, il nome e la password di lui, ha messo in atto la sua vendetta: uccidendo, ovvero cancellando da Maplestory, il personaggio laboriosamente creato da lui. Lui ha protestato con gli amministratori del gioco e poi con la polizia, che ha considerato il caso alla stregua di un attacco illegale di hacker a un sito: un crimine via computer, per il quale in Giappone esiste una pena massima di cinque anni di carcere e circa 4000 euro di multa. Così gli agenti hanno identificato la donna e sono andati a casa sua ad arrestarla.

Secondo gli esperti si tratta del primo caso al mondo in cui un reato compiuto durante una relazione di "role playing" (giochi di ruolo) su Internet viene punito con l'arresto nel mondo reale. I giornali inglesi in verità ne citano un altro, anch'esso recente: un tribunale olandese ha condannato due adolescenti a 360 ore di lavoro sociale per avere picchiato, virtualmente, un compagno di classe e per avere rubato i suoi beni in un gioco su internet. "Questi bene virtuali sono pur sempre beni secondo la legge olandese, per cui si tratta di un furto", ha affermato il giudice. Le implicazioni delle due decisioni possono essere enormi. "Spero che la mia ex moglie vada in prigione", ha detto il marito "assassinato" virtualmente. E intende una prigione reale, non digitale.

 

CHI SONO GLI HIKIKOMORI

MILANO — Alex ha messo un chiavistello alla porta della sua stanza e per oltre sei mesi ha chiuso il mondo fuori. Andrea da nove passa le sue notti su Internet perché la vita vera, dice, è lì. Anna esce dalla camera solo di notte per assaltare il frigorifero. Luca risponde esclusivamente a chi lo chiama con il «nick» perché il suo nome gli suona vuoto come la sua esistenza. Confondono il giorno con la notte, parlano con gli sconosciuti e sono sconosciuti in casa loro. Sono le esistenze rovesciate degli "hikikomori", i giovani autoreclusi, non più solo giapponesi.
Per conoscere le loro storie devi parlare con le sentinelle impotenti del loro ritiro. Genitori, fratelli, amici: «Mio figlio per oltre sei mesi mi ha parlato solo attraverso la porta e solo per urlarmi "lasciami in pace"»; «Mia sorella esce quando tutti dormono: mi ruba le sigarette dallo zaino e torna a rinchiudersi ». Ma per incontrarli non puoi che andarli a cercare nel loro regno: Internet. Ecco Chaoszilla, dà un nome agli autoreclusi come lui: «Io sono un hikikomori »; Pavély spiega cos'è, un hikikomori: «È una parola giapponese. Indica il comportamento di quei ragazzi che per anni vivono in casa, senza affrontare la vita e l'amore. Solo Internet e fumetti. Cosa importante: io sono uno di loro»; Miki s'identifica, quindi quantifica il fenomeno: «Ve lo dico: hikikomori è un traguardo, è la frontiera. In Giappone sono circa un milione. In Italia siamo mostruosamente indietro ma la necessità di isolarsi dall'orribile mondo esterno vedo che si diffonde sempre di più».

Su una cosa Miki e il mondo fuori dalla sua stanza sono d'accordo: gli hikikomori, anche in Italia, sono sempre di più. Non esistono statistiche sulla «lost generation» nostrana. Solo le testimonianze di psicologi: oltre 50 i casi che abbiamo registrato. E le storie (nascoste dietro nomi di fantasia) di Alex: 16 anni e una vita in 20 mq scandita dal rombo degli aerei di Malpensa; Andrea: un anno in più di Alex e una «cella » alle porte di Brescia; Valentina: rinchiusa in un appartamento sull'Adriatico; Luca: solo di recente uscito dal suo «guscio» in Gallura. Più maschi che femmine. Quasi sempre «under 18», almeno in Italia. Molto intelligenti, creativi, ma introversi. Letteralmente giovani «in ritiro», ragazzi che senza un apparente motivo si chiudono nella loro stanza. Chi (come Oblomov di Goncarov) per incapacità di affrontare il mondo, chi (è il caso di Miki) per esprimere la sua rabbia. E ancora: chi per mesi, chi per anni. Il record nostrano: tre-quattro anni. Quello nipponico: 15 e più. Per alcuni la clausura è totale, per altri parziale: qualcuno esce dalla propria stanza per cenare con i genitori, per andare in vacanza, chi vive solo è obbligato a farlo per comprare del cibo nel supermercato più vicino.

In Giappone gli hikikomori sono un fenomeno culturale e sociale: sono oltre un milione, l'1% della popolazione, il 2% degli adolescenti. Alcuni ricercatori, tra cui Michael Zielenziger (suo il saggio Non voglio più vivere alla luce del sole), hanno avanzato l'ipotesi che anche la principessa Masako Owada, ne sia affetta. La colpa della loro autoreclusione è stata data alle pressioni sociali, alla severità del sistema scolastico, alla spinta verso l'omologazione, alle madri oppressive, ai padri assenti, al bullismo. Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare quello che viene definito un disturbo («non una patologia»). Ma è stato anche il primo a evidenziare alcuni punti di contatto tra i ragazzi giapponesi e i «mammoni italiani». A ricordarlo è Carla Ricci, antropologa con una vita a Tokyo e autrice del libro Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione.
«Il fenomeno è tipicamente giapponese. Ma da lì si sta allargando in Corea, Usa, Nord Europa, Italia». La prima analogia: «Lo stretto rapporto con la madre. Proprio il suo essere iperprotettiva, spesso entrambi i genitori lo sono, può rendere il figlio narcisista e fragile. E alla prima difficoltà si ritira». Inizia col passare sempre più ore nella sua camera, col disertare le cene in famiglia, niente amici, sport, cinema. «Finché un mattino dice di non voler più andare a scuola perché ha bisogno di riposarsi».

Nell'ultimo anno all'Istituto «Minotauro» di Milano, dove lavorano Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti, si sono rivolti i genitori di oltre 20 ragazzi. Le loro storie sono coperte dal più stretto riserbo. «Cinque i più gravi: vivono chiusi nelle loro stanze da ormai tre anni». Spiega Pietropolli Charmet: «In ogni momento storico e in ogni Paese i giovani hanno dato sfogo al loro malessere: le isteriche di Freud, i tossicodipendenti anni '60-'70, le nostre anoressiche. Gli hikikomori sono figli della cultura giapponese, ma i nostri "autoreclusi" condividono con loro più di un aspetto». Continua Piotti: «Innanzitutto la vergogna narcisistica. Lo scarto tra il loro desiderato e il reale è troppo forte. Colpa anche delle eccessive aspettative dei genitori ». All'origine c'è poi spesso una fobia scolastica. «Ma mentre i ragazzi giapponesi fuggono da regole troppo severe, i nostri scappano dall'incapacità di gestire relazioni di gruppo». Identico il risultato: «Si chiudono in una stanza. Sostituiscono la vita reale con quella virtuale. Ma Internet e i giochi di ruolo sono solo una conseguenza, non una causa», afferma Giuseppe Lavenia, del Centro Nostos di Senigallia, una decina di casi trattati. Spesso, come le anoressiche, negano il proprio corpo. Ultimo passo: l'inversione del ritmo circadiano, vivono di notte e dormono di giorno.
Più il ragazzo vive nel suo guscio, e per questo soffre, più è difficile farlo uscire. «Il problema è entrare in contatto con loro», dice Giovanna Montinari, psicoterapeuta della cooperativa romana «Rifornimento in volo», altri due casi allo studio. Non resta che parlare con i genitori, con gli amici. «Ma a volte il contatto arriva solo grazie a quello che chiamiamo "compagno o fratello maggiore", un giovane psicoterapeuta». È il caso di Alex: la prima persona a cui ha aperto la porta, dopo oltre sei mesi di autoreclusione, è stata la «sorella maggiore» che ha bussato alla sua chat. (Alessandra Mangiarotti, 11 febbraio 2009)

 

23-03-2009


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