Corpo negato, corpo reinventato:
la realtà virtuale

relazione di Floriana Lipparini

 


Second Life

Premetto che l’esperta di rete, web, internet, tecnologie informatiche, insomma la vera internauta è Enza Panebianco (vedi il suo sito) che ci convolgerà in un’immersione molto interessante e anche divertente. Io sono solo una fruitrice che usa questi strumenti in modo semplice, con grande godimento ma anche con qualche dubbio.

Insomma, mi sono presa un po’ il ruolo dell’avvocata del diavolo, anche se non ho nessuna intenzione di demonizzare questo canale di comunicazione che oltre alla faccia diciamo così “pericolosa” presenta di sicuro anche una faccia preziosa e utilissima per una serie di obiettivi che ci interessano molto proprio dal punto di vista del femminile, e di cui parleremo più avanti.

Dico subito che uno dei punti critici della comunicazione via internet – ormai multiforme, dalla mail ai blog, dalle chat al social networking come Facebook o altri, da Skype a Youtube – secondo me potrebbe essere il rischio di progressiva smaterializzazione non soltanto dei rapporti interpersonali e di lavoro, ma anche di alcune abilità umane.

Per quanto riguarda le abilità, intendo ad esempio l’uso delle mani: ora che il computer è anche nelle scuole, diminuisce in tutto il mondo per le nuove generazioni l’abitudine alla scrittura manuale, ma stiamo andando oltre, perché forse fra poco scomparirà anche la digitazione su tastiera, sostituita dal sistema touch and screen, che a vedersi ha del magico, sembra proprio l’antico gesto della bacchetta magica, o dal comando vocale:  però così si rischia di “atrofizzare” e smaterializzare un’antichissima funzione umana come la scrittura.
Questo mi colpisce perché la scrittura è stata per me uno strumento di lavoro, e mi ricordo quando da bambina quasi di nascosto ho imparato a usare la grande e vecchia macchina da scrivere di mio nonno. Ero molto orgogliosa di esserci riuscita. Quello era un esercizio che coinvolgeva tutto il corpo, braccia, dita, vista, schiena… Magari anche con i dolori che chi scriveva molto a macchina ben ricorda!

Per quanto riguarda la smaterializzazione dei rapporti interpersonali e di lavoro, provo a partire da me, con un esempio tratto dalla mia personale esperienza, un paragone fra il mio primo lavoro giornalistico e l’ultimo, fra cui intercorrono quasi 40 anni.

Nel lontano 1964 (sì, lo so, è la preistoria…) alla Rizzoli, nel grande edificio di via Civitavecchia, che da poco è stato distrutto, al secondo piano si trovavano tutte le redazioni femminili, e nello stesso corridoio c’era anche il mitico Europeo che in quegli anni era al massimo dello splendore, quanto a livello giornalistico. In quei corridoi passavano i fotografi per la scelta delle immagini, gli illustratori, le autrici e gli autori di racconti, nomi come Brunella Gasperini, Guido Crepax, Gianfranco Moroldo, Giorgio Fattori, Scerbanenco, veri e propri miti… Li incontravi, li conoscevi, ci potevi parlare. Si lavorava con macchine da scrivere faticose e pesanti, non c’erano fotocopiatrici. Per correggere una didascalia o un articolo, dovevi calcolare esattamente il numero delle battute, e poi scendere nel seminterrato dove bravissimi e ipercritici tipografi ti aspettavano al varco perché dovevano spostare letteralmente a mano i caratteri di piombo, e la stima te la guadagnavi solo se la tua correzione s’incastrava perfettamente nella riga, qualcosa che si poteva appunto toccare, che era pesante, materiale.

Nel 2007, il mio ultimo lavoro è il coordinamento di un quindicinale, realizzato interamente da casa mia tramite il mio Mac: tutto passa da lì, articoli, immagini, impaginati... E con un semplice comando posso istantaneamente apportare qualsiasi variazione. Un giorno ogni due settimane vado in redazione per la riunione di impostazione del numero, e due settimane dopo vado un giorno dal grafico per chiudere definitivamente le pagine. Naturalmente, e per fortuna, oltre a questo aspetto tecnico del “fare” il giornale ho anche da scrivere articoli e interviste, però molto spesso si tratta di rapporti telefonici, mentre in passato ci s’incontrava assai di più di persona.
Da un certo punto di vista è tutto comodissimo, perdo meno tempo e oltretutto spostandomi di meno in auto inquino di meno, la mia impronta ecologica è meno pesante, ma alla fine svolgo un lavoro solitario e senza spessore, perché privo di scena comune, come senza spessore e profondità appaiono le fotografie digitali rispetto a quelle tradizionali.
So che anche chi lavora nelle redazioni dei grandi giornali e non a casa, non si sposta più dalla sedia: tra agenzie e internet, non si va più a cercare il mondo e si prende per buono ciò che non si verifica direttamente, confezionando giornali tutti uguali e privi di verità.

Ma quando diminuiscono le occasioni di incontro faccia a faccia e si spopola la scena comune, cosa può accadere? Sintetizzando un po’ brutalmente, ricordo che per Arendt  vivere nella polis significa “apparire, vedere ed essere visti nello spazio pubblico”, lì dove si condivide la scena con gli altri, e con il discorso e l’azione si dà senso al mondo, modificandolo e modificandosi grazie allo scambio e al confronto. Chiarisco che per Arendt “apparire” significa incontrarsi di persona, in carne e ossa, in un luogo reale, e non va quindi inteso nel senso dell’apparire nella società dello spettacolo.
Lo spostamento della scena comune sulla rete quali effetti potrà produrre, da questo punto di vista? Non voglio escludere nulla per principio, posso anche ipotizzare che addirittura lo scambio e il confronto in un certo senso sulla rete venga potenziato. So bene, perché io stessa così la vivo, che la rete può essere vissuta come una sconfinata e vertiginosa agorà, un incrocio infinito di autostrade cognitive e piazze virtuali dove ci s’incontra con viaggiatrici e viaggiatori noti o ignoti, intrecciando flussi comunicativi personali, culturali e politici senza limiti di tempo e di spazio. L’ordine o il caos possono regnarvi in egual maniera. Così anche la gerarchia o la “democrazia”. Tutto diventa virtuale, quindi possibile, perché virtuale etimologicamente significa appunto non ciò che è irreale ma ciò che si può attuare, però in un’altra dimensione i cui effetti non sono finora abbastanza chiari. Quanto siamo noi a usare tale strumento, o quanto invece lo strumento sia così potente da sovrastarci senza che ne siamo consapevoli, è difficile dire.

Secondo Jean Baudrillard, “tutta la fantascienza ci ha abituato in qualche maniera a concepire altri spazi con coordinate differenti, multi-spazi, e via dicendo. In relazione al tempo questo è molto più difficile da immaginare, ma in ogni modo si ha l’idea di manipolare il tempo reale. In effetti, il tempo virtuale è il tempo reale e d’altronde è del tutto paradossale e ambiguo il fatto che si chiami tempo reale il tempo proprio della virtualità, il quale non è più in alcun modo il tempo della realtà, quello cioè che in ogni caso scandisce la durata dello sviluppo fra passato, presente e futuro. Nessuna di queste tre categorie di tempo ha più valore: il tempo reale è l’istantaneità dell’operazione, è il tempo stesso dell'operazione, e perciò ciascuna operazione ha in un certo senso un tempo proprio, che però non corrisponde più a una cronologia”.

Può tutto questo rappresentare un nuovo tipo di polis? L’incontro on line, svincolato dalle coordinate spazio-temporali, può sostituire davvero la polisensoriale “scena comune” finora esistita nella realtà, quello spazio pubblico della cittadinanza a dir il vero ormai deserto, spesso sostituito dalla tv?
Certo, in rete ci s’incontra, però i pixel dello schermo non hanno volume, non hanno odore (almeno finora, trascurando le simulazioni della realtà virtuale).  D’accordo, anche la comunicazione telefonica  è in qualche modo una smaterializzazione, forse la prima, del rapporto interpersonale, ma la voce con i suoi chiaroscuri, con le sue intonazioni, è ancora un elemento sensoriale.

Mi chiedo se la comunicazione on line, prescindendo dai corpi che hanno finora rappresentato l’unico strumento a nostra disposizione per esperire il mondo, non abbia un carattere piatto, senza ombra, come dice sempre Baudrillard in un’intervista del 1999: “Nel mondo virtuale direi che non ci sono né apparenze né essere, non esistono ombre giacché l’essere è trasparente, in un certo senso questo è il dominio della trasparenza totale. Noi siamo perciò come attraversati in qualche modo dai messaggi, dall’informazione, dai megahertz o che so io, da tutto quel che si vuole, poiché noi stessi siamo trasparenti all’interno della realtà virtuale, non abbiamo più un’ombra. La nostra, se si vuole, è tipicamente l’epoca dell’uomo che ha perduto l’ombra. La famosa frase, ‘egli ha smarrito la sua ombra’, è una metafora che sta a indicare che abbiamo perso l’opacità, e in fondo l’essere stesso, lo spessore dell’essere, la sua profondità”.

Ripeto, non voglio demonizzare la realtà virtuale, ma solo guardarla criticamente, sospesa tra fascino e rischio. In effetti, il rapporto con la realtà virtuale inizia però da un oggetto materiale qual è il computer, con il quale può instaurarsi, soprattutto per chi lo usa molto a fini di scrittura, un misterioso rapporto totalizzante, per l’inebriante faccia a faccia totale, una vera e propria immersione che potrebbe renderti superfluo il resto del mondo, con il rischio di produrre isolamento (“Il sistema economico fondato sull’isolamento è una produzione circolare di isolamento”, scriveva genialmente Guy Debord).

Per la mia esperienza, la scrittura creativa è enormemente facilitata e enfatizzata  dal computer, una sorta di alter ego che risponde a tutti i tuoi desideri: mentre scrivi ascolti anche musica che sempre lui ti eroga, dialoghi con altri mondi, puoi immergerti in un’immagine a tutto schermo che ti cattura, puoi cercare e trovare l’araba fenice grazie ai motori che scovano le più incredibili stranezze. La facilità e la leggerezza a-corporea di questi spostamenti ti porta quasi in un’altra dimensione, la famosa “estasi della comunicazione  come dice sempre Baudrillard (sarebbe interessante capire se assomiglia a uno stato di percezione extrasensoriale...)

Ma… ecco il ma: non rischiamo di cadere nella trappola di un’astrazione “spiritualistica” ipercomunicativa, che replica in nuovi modi la svalutazione del corpo-materia legato simbolicamente al femminile, e la divisione mente-corpo che gli scienziati secenteschi concettualizzarono per rafforzare l’impianto patriarcale delle società borghesi preindustriali? Penso a Roger Bacon, a Cartesio… E prima vi furono eresie religiose dualiste che nel Milleduecento demonizzarono la materia, il femminile, la riproduzione... Tutte conosciamo le conseguenze aberranti di tali ideologie, le vediamo ancor oggi all’opera.

Abbiamo a che fare solo con un mezzo, uno strumento “neutro”, oppure con una mutazione profonda della nostra dimensione esistenziale che, come qualcuno profetizza, ci sta traghettando nell’era del post-umano? E come staranno le donne in questa era tendente all’immateriale? Divise fra la tentazione di liberarsi della pesantezza legata al corpo e alle sue funzioni biologiche, troppo spesso condanna e prigione, e il bisogno/desiderio di corporeità come indispensabile base sensoriale di un’esistenza ancora umana?

In ogni caso, un numero sempre più alto di donne sta sperimentando la felicità di questo sconfinamento che libera dalle pastoie della distanza, perché rinunciarvi? Forse il punto è riuscire a usare la realtà virtuale senza farsene catturare, riuscire a desacralizzarla, a usarla criticamente, a volgerla verso obiettivi concreti… Si tratta di uno spazio disponibile, e il tumultuoso universo dei femminismi di spazi ha più che mai bisogno, per comunicare, per interagire, per  creare rete, per essere visibile... E con l’aiuto degli strumenti virtuali riuscire poi a contare davvero nello spazio reale.

 

 

23-03-2009


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