Vietare il burqa? Non basta un sì o un no.

di Floriana Lipparini


Alexandra Boulat


La questione del burqa secondo me rappresenta da tempo una sorta di tabù per le donne di sinistra e per le femministe non solo italiane ma europee, e in questo vuoto hanno sicuramente prosperato posizioni finto-femministe di destra.

Confrontarsi con tale spinoso argomento non è solo una questione di costume o “di costumi”, ma significa in realtà dover affrontare temi ciclopici quali la libertà di coscienza, il relativismo culturale, la misoginia delle religioni e naturalmente i diritti e le libertà delle donne.

Come mi pongo allora io, femminista di matrice anarchica, e quindi assai diffidente nei confronti di imposizioni istituzionali dall’alto, rispetto al dilemma “divieto sì o divieto no”? Specifico che quando mi dico anarchica non intendo alludere a una società priva di regole, ma a regole liberamente decise “dal basso” e rispettate con grande senso di responsabilità personale.

Sono inoltre consapevole del fatto che ogni corpus giuridico è stato finora concepito solo da menti maschili, e che soltanto da pochi decenni le leggi hanno timidamente iniziato a rispecchiare una concezione sessuata del diritto. Non è quindi alle leggi che voglio affidarmi per cambiare la vecchia cultura sessista ancora a vari livelli imperante nel mondo, ma alla forza, al desiderio, alla capacità di solidarietà delle donne stesse.

Qui però incontro un problema. Sembra che alcune di noi occidentali vedano il fatto di indossare il burqa, il niqab, l’hijab o il velo che dir si voglia, come una libera scelta, una “differenza culturale”, se non addirittura una questione di look.  
Ora, non è passato molto tempo da quando in Algeria gli integralisti uccidevano le donne a capo scoperto, e ancora oggi alcuni ulema in vari paesi musulmani invocano falsamente il Corano e la sharia per proibire alle donne qualsiasi forma di libertà. Difficile pensare a una libera scelta mentre sulla testa ti pende una scimitarra…

Guardare in faccia queste cose significa forse dare man forte alla “crociata” contro i musulmani? Per quanto mi riguarda è insostenibile: non soltanto ho preso parte a ogni forma di protesta contro la guerra in Iraq fin dai primissimi giorni, ma ho sempre in mille modi, verbali e scritti, sostenuto la convivenza, il dialogo e il rispetto fra le culture. Fra le culture, appunto, non fra gli integralismi religiosi d’Occidente e d’Oriente, non fra i patriarcati oppressori e odiatori delle donne, di qualsiasi nazionalità siano.

D’altro canto, così come non si può imporre o esportare la democrazia, nemmeno si può imporre a una donna che non abbia ancora preso coscienza della subalternità storica imposta al genere femminile di ribellarvisi.  Ecco perché la legge non è la scelta giusta, anche se trovo ragionevole che in alcune circostanze sia necessario farsi identificare mostrando il proprio viso, come leggi italiane già vigenti richiedono.

Tuttavia, sembriamo ignorare una fondamentale domanda: che cosa significa “donne musulmane”? Perché imprigionarle in questa identità? Perché non accorgerci che “le altre siamo noi”?  Perché dimenticare che la lotta per la libertà delle donne è ovunque la medesima e quindi ci accomuna? In Algeria, in Tunisia, in Egitto, esistono associazioni di donne laiche (in alcuni casi risalgono addirittura alla fine dell’Ottocento) che coraggiosamente lottano per cambiare le cose, nella solitudine e nel silenzio internazionale.  


Scrive con amarezza l’algerina Wassyla Tamzali nel suo libro Une femme en colère uscito di recente da Gallimard: “Siamo il segno e le vittime del rovesciamento del mondo nell’era del post-tutto: post-colonialismo, post-orientalismo, post-modernismo e post-femminismo, il cui ultimo avatar è il femminismo islamico. È del tutto naturale che avessimo sperato di trovare al nostro fianco i nostri amici intellettuali-per-la-maggior-parte-di-sinistra, uomini e donne che noi abbiamo frequentato per tanti anni, con i quali abbiamo condiviso numerose cause: la libertà per i popoli colonizzati, la pace, la democrazia, l’Africa del Sud, la Palestina, il Cile, il diritto all’aborto, la Bosnia, il Ruanda, i sans-papiers, la parità… La questione delle donne nelle società islamiche non s’inscriveva forse con ogni evidenza nella continuità di queste lotte, dato che si tratta ancora di libertà e di dignità? Non eravamo forse da tanto tempo gomito a gomito su quel fronte? E in particolare con le femministe europee? Sulle discriminazioni sessiste, abbiamo lo stesso giudizio e la stessa analisi circa il peso delle religioni sull’inferiorizzazione delle donne. Il patriarcato era universale, loro qui e noi laggiù condividiamo la medesima idea sulla costruzione del rapporto fra i sessi e sull’esigenza di libertà e di uguaglianza nel diritto delle donne. Questi legami sono stati messi in discussione dal ripiego identitario e dal ritorno del religioso. Contro i discorsi antifemministi che giustificavano pratiche di segregazione sessista come portare il velo, le femministe europee non si schierano sempre con noi, femministe del Sud. […] Quando si è trattato di sapere insieme come articolare il principio di uguaglianza dei sessi in tutte le culture, alcune femministe si sono allineate alle tesi del relativismo culturale”.

Forse è proprio questo che manca, la solidarietà attiva che in altri tempi era logico e naturale mostrare per ogni giusta lotta di liberazione. Allora, riallacciare relazioni con le donne di quei paesi, dialogare, organizzare iniziative comuni per riportare al centro del mondo le loro e le nostre storie, le loro e le nostre ribellioni, i loro e i nostri desideri: questa per me è la risposta, l’uscita dal manicheo dualismo del sì o del no al divieto.

 

19-09-2010

 

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