Padova, 20 novembre 2010

La maschera e il viaggio

Floriana Lipparini


 

Nel libro di Stefano Ciccone “Essere maschi. Tra potere e libertà” vedo una difficoltà che secondo me si ritrova sempre anche nel discorso femminista, cioè la forte tensione tra la necessità di identificarsi in una “categoria”, seppur molto speciale come appunto è il genere, per poterne vedere i confini e sottoporla a critica, e il bisogno di uscire invece dalle categorie sempre soffocanti, se non addirittura claustrofobiche, perché se si ragiona in nome di categorie ed essenzialismi si rischia sempre di non capire o di dimenticare che, come dice Arendt, la pluralità è la legge della terra.
Questa difficoltà, che è anche una necessità, è ben esemplificata da Nancy Fraser quando parla del “punto di vista dell’altro collettivo e concreto” (i neri, le donne…), che partendo dalla parzialità offre una nuova visione dell’insieme.

C’è dunque la necessità di uscire dalla legge dell’uno – l’ordine simbolico maschile santificato dalle religioni, che si è costruito autouniversalizzandosi - non però per legittimare un’altrettanto rigida strutturazione dualista della realtà e delle relazioni, ma per accogliere invece la grande novità della molteplicità, una concezione aperta e fluida dell’identità come crocicchio inestricabile di esperienze, appartenenze, desideri, immaginari…
Un’uscita dunque da un’appartenenza di genere come destino e gabbia. Non mi riferisco qui alla dialettica eterosessualità-omosessualità, ma alla gabbia prodotta da millenni di potere patriarcale che ha collegato al genere biologico di nascita rigide categorie esistenziali e personali, insomma quella maschera di cui Ciccone parla in alcuni punti del suo libro, tema che personalmente trovo suggestivo e intrigante.

 “Persona” in latino era il vocabolo che indicava la maschera di legno portata dagli attori in teatro, e che secondo un’etimologia popolare potrebbe derivare da per-sonar, risuonare attraverso. Vi sento echi del sovrapporsi vertiginoso di una falsa identità, necessaria per potersi mostrare al mondo, alla soggettività individuale, che però risuona attraverso. Identità costruita, ruolo costruito, in attesa che se ne sveli l’inautenticità.
Percepire l’esistenza della maschera, percepirne il peso e la falsità per quanto mi riguarda ha costituito l’inizio del viaggio di scoperta di me ma anche dell’altro da me, un viaggio euristico di svelamento che forse non avrà mai fine, perché vengo continuamente modificata dalla relazione con altre/altri che hanno intrapreso lo stesso viaggio ma sono in fasi diverse, in approdi diversi e quindi mi aprono nuove prospettive potenzialmente trasformatrici…

Un altro punto che mi convince molto nel libro di Ciccone è il continuo richiamo all’eterogeneità soggettiva dei percorsi di consapevolezza, non esiste per fortuna una norma prescrittiva circa la modalità di accesso al viaggio di liberazione dagli stereotipi di genere. Personalmente, il mio essere femminista non è precisamente inquadrabile nel tempo secondo tappe canoniche.  Dato per scontato il rifiuto in prima istanza istintivo dell’inaccettabile ruolo femminile pesantemente codificato dalla società, per le donne della mia generazione, che si può inscrivere nell’emancipazionismo delle origini, ricordo di essermi gettata in una riflessione sulla storia delle religioni e delle eresie, e sull’origine delle guerre, e da lì infine di essermi immessa nel grande fiume – o meglio, oceano -  del femminismo vissuto e condiviso, certo attraverso la lettura dei “sacri testi”, ma soprattutto attraverso la relazione con le altre donne e la condivisione di pratiche e percorsi.

La decostruzione culturale e simbolica del patriarcato per me, in ogni caso, si è sempre tradotta nell’inestinguibile desiderio di trasformazione del mondo, la forse pericolosa potenza di un sogno che si deve tenere a freno per calarlo nel “qui e ora”, nella concretezza di un agire politico diverso da quello messo in campo dal potere maschile, forse astratto nelle sue teorizzazioni e nei suoi principi ordinatori (il famigerato logos), ma terribilmente reale nelle sue devastanti conseguenze e nella sua pulsione di morte. 

A proposito di pulsione di morte, ricordo che nel libro L’amore e l’Occidente Denis de Rougemont parlando del maschile e della guerra cita il terzo atto del dramma di Wagner che “descrive ben più che una catastrofe romanzesca: descrive la catastrofe essenziale del nostro [dei maschi] sadico temperamento: questa smania repressa di morte, questo gusto di sperimentarsi nel limite, nell’urto rivelatore che è senza dubbio la più inestirpabile fra le radici dell’istinto della guerra che portiamo in noi”. È forse con questo che gli uomini devono confrontarsi per andare finalmente oltre.
Produrre trasformazione, secondo me, implica necessariamente la capacità di cambiare l’immaginario per cambiare la realtà del rapporto fra i generi, e di conseguenza la realtà del mondo. Un compito di enorme portata che le donne da sole non potranno mai portare a compimento. Ecco quindi l’importanza fondamentale del risveglio maschile, dell’inizio della loro riflessione su se stessi, sull’altra faccia del potere, sulle perdite che questo ruolo di dominio ha comportato, e della loro ricerca di libertà.

Si tratta certo di un’interlocuzione politica fra i generi, ma non di un’alleanza. Si tratta di un inevitabile conflitto al proprio interno e naturalmente con l’altro da sé e con il mondo che vogliono anche loro trasformare, un conflitto da gestire con modalità non guerresche, quindi inedite. Possono essere le stesse che hanno connotato il percorso del femminismo? Ho molti dubbi, e qui vorrei inserire uno sguardo critico. Potrei sbagliarmi, ma forse per questi uomini coraggiosi varrebbe la pena di vivere una propria specifica discesa agli inferi nella fatica di cercare “altre vie” per decostruire il simbolico patriarcale, per scompaginare dall’interno strutture mentali e sociali, alleanze palesi o inconfessate, ideologie vecchie e nuove, perché diversa è la condizione di partenza, diversi sono gli obiettivi intermedi di questa ricerca, diversi i nodi con cui confrontarsi.

Per me sarebbe interessante, ad esempio, capire meglio che cosa secondo il loro percorso  può produrre in termini concreti la critica maschile del maschile normativo rispetto alle forme della politica, alla costruzione sociale, all’immaginario. 

Mi piacerebbe anche sapere se hanno riflettuto sul fatto che mentre si apre una riflessione critica di uomini sul maschile, in molti luoghi si rafforza invece una cupa rappresentanza politica a mio avviso regressiva e neopatriarcale (intendo dire che il patriarcato, proprio come il capitalismo, ha finora mostrato una diabolica capacità di risorgere dalle proprie ceneri e trasformarsi in forme apparentemente nuove, ma ciò non significa naturalmente che non soffra i colpi delle profonde crisi inflittegli dal femminismo e sia per sempre invincibile). È l’ultimo bagliore prima della fine?
Si dice poco, poi, nel libro, di quel che cambia nei rapporti familiari e di coppia a seguito di questa mutazione non da poco, rispetto alla norma. Quali difficoltà o quali guadagni. Ad esempio, altre  donne che come me hanno un figlio maschio mi hanno confermato quanto sia complesso e delicato trasmettere il proprio impegno femminista senza che passi un sottotesto per cui la sola appartenenza al genere maschile rischi al di là delle intenzioni di essere sentita come colpevolizzante, in quanto simbolo di oppressione. Un esito evidentemente rozzo e non voluto.

C’è poi un rischio di cristallizzazione nel porre a tema qualcosa che ovviamente è soggetto a continue modificazioni. Confrontarsi con un femminismo fermo nel tempo può essere forviante, e sappiamo che molto è mutato in questi decenni. Da un lato vediamo quella che qualcuna definisce “ri-genderizzazione” (riemergere di un ruolo femminile classico pur nella ormai acquisita presenza delle donne in ogni spazio della società), e che costituisce un esito a dir poco perverso delle nostre lotte, da un altro la consolatoria (e temo illusoria) idea dell’avvenuta “femminilizzazione” della società. E infine un’eccedenza, un fenomeno di resistenza e di innovazione insieme, che per me è il più interessante, anche se di natura microscopica e fragile, cioè un radicale situarsi critico nei confronti di ogni potere, di ogni dogma e di ogni categorizzazione.

Infine, mi permetto uno sguardo critico sul linguaggio del libro, che secondo me è un po’ disincarnato, si cita il corpo ma non sempre davvero c’è, si raccontano pratiche, ma la narrazione è un po’ asettica.  Attenzione, questo è un rischio che corriamo spesso anche noi donne quando, scrivendo di femminile e di femminismo, dimentichiamo quanto il discorso sul genere e sui generi nasca dalla concreta esperienza dei corpi, i  “corpi pensanti”. Quando invece il corpo c’è, ecco che escono narrazioni ricche di luoghi, colori, odori, cibi, emozioni… Dividere la mente del corpo è l’eterna trappola in cui è tanto facile cadere. Ricongiungerli e cambiare la storia del genere e dei generi è la sfida urgente che ci troviamo davanti.

 

8-01-2011

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