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Il drago e le navi

di Floriana Lipparini

Un braccialetto, da portare tutti i giorni, e un simbolo: la “I” di immigrati. Un piccolo gesto necessario. Lo propone la campagna “Todos somos Inmigrantes, ponte el brazalete”, che si trova su Facebook. Mi sembra importante. Dobbiamo far vedere pubblicamente, tutti i giorni, che ci sono persone antirazziste, dobbiamo far crescere la protesta, soprattutto in Lombardia, soprattutto a Milano dove le destre stanno oscenamente cavalcando i peggiori sentimenti e la paure costruite ad arte.

Ma importantissimo è anche muoversi a livello di protesta ufficiale: sul sito www.comeunuomosullaterra.blogspot.com si può firmare una petizione on line al Parlamento italiano ed europeo, alla Commissione europea e all’Alto commissariato per i rifugiati, per promuovere una commissione d’inchiesta internazionale e indipendente sugli accordi bilaterali fra Italia e Libia in materia d’immigrazione.

La verità è che stiamo tornando a una condizione primigenia di vita e di morte. Mentre astrusi e surreali dibattiti animano le nostre cronache e i mass media sproloquiano di re e di regine (come han fatto a tornare?), nel Mediterraneo si svolge una sanguinosa mattanza di migranti in fuga da guerre e miseria. Rispetto della vita? Diritti umani? Doveri d’asilo? Non valgono più. Frontex, il drago, si è divorato tutto.

Sulla scena, intanto, automi mascherati da persone ripetono soddisfatti, con sorrisi glaciali, che questi sono i sacrifici umani chiesti da Frontex per risparmiare il nostro prospero stile di vita. “Siamo già riusciti a ricacciarne cinquecento”, dicono con vanteria da primi della classe, avendo persino anticipato la data (15 maggio) in cui l’infame impegno al respingimento diventerà ufficiale.

Per questo orrore dobbiamo dunque render grazie a Frontex, emblematico nome di un’agenzia europea con sede a Varsavia nata all’unico scopo di respingere al di là del Mediterraneo africani disperati in cerca di vita e di lavoro, quel Mediterraneo che per millenni è stato liberamente solcato in ogni direzione, carico di merci e di leggende, di spezie e di schiavi, di esploratori e di pirati.

Se prima i richiedenti asilo riuscivano almeno a toccar terra e a sopravvivere nonostante il trattamento inumano nei nostri ex Cpt e attuali Cie, magari persino a svicolare per raggiungere luoghi di sfruttamento ma pur sempre di vita (se vita si può chiamare, naturalmente), ora il vascello dei dannati non può più nemmeno attraccare.

Ora un gigantesco drago di guardia in fondo allo Stivale apre le fauci e vomita lingue di fuoco che appena la nave appare all’orizzonte ricacciano i disperati nell’inferno da cui è vietato fuggire. Anche se sei una donna, anche se sei incinta, anche se sei un minuscolo essere di pochi giorni. La forza mortifera di questa immagine è omerica: un potere assoluto che sovrasta vite inermi, in balia di un mare improvvisamente trasformato in invalicabile frontiera. Cosa sarà obbligata a fare la marina italiana la prossima volta? Dovrà tradire con disonore le antiche leggi del mare, prendendo a cannonate gli scalcinati barconi?

In questi giorni ho visto due film-reportage, Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene, e Sulla via di Agadez, di Fabrizio Gatti. “Dal 2003 Italia ed Europa chiedono alla Libia di fermare i migranti africani. Ma cosa fa realmente la polizia libica? Cosa subiscono migliaia di uomini e donne africane? E perchè tutti fingono di non saperlo?”, è il sottotitolo del primo, un insieme di storie di rifugiati che raccontano inenarrabili violenze e torture subite nei campi di detenzione finanziati dall’Italia. “Dal Niger quasi 10 mila africani fuggono verso le nostre coste. La guerra per l’uranio e l’alleanza Gheddafi-Sarkozy favoriscono i trafficanti. E gli accordi Italia-Libia diventano così una beffa”, dice il secondo, che punta “a far capire i motivi per cui, quando si parla d’Africa povera e sempre più povera, l’Occidente c’entra”.

Due film da vedere e da far vedere, due impietosi specchi del mondo contemporaneo. Dov’è finita l’Andalusia che per sette secoli rappresentò un esempio di rispetto e convivenza? “Il potere ommeyade favorì l’espandersi di una società in cui il gruppo dominante non schiacciava i più deboli e dove musulmani, ebrei e cristiani vivevano in buon  rapporto gli uni con gli altri, comunicando nella vita quotidiana sull’esempio dei più saggi fra loro”, scrive l’esperta di storia e agronomia  medievale Lucie Bolens parlando degli zejels, poemi del IX secolo composti da alcune strofe scritte nelle diverse lingue. Lì le differenze erano cultura e ricchezza umana.

Oggi invece ai massimi livelli istituzionali si proclama senza vergogna l’istigazione alla chiusura e al razzismo. Quando i nostri “democratici” politici parlano dell’Europa come del nostro luminoso futuro, sento i brividi corrermi per la schiena. Lo sappiamo da anni: non come una terra di libertà, non come un luogo di storia e di cultura che non ha bisogno di frontiere si è costruita l’Europa, ma come una fortezza per privilegiati che però hanno il sovrano diritto di muoversi indisturbati nel mondo. Diritto primario di ogni persona sulla terra, eccetto quegli africani che in anni non troppo lontani tutto il mondo ha ufficialmente depredato e oggi continua ipocritamente sottobanco a depredare, e a condannare a morte.

 

17-05-2009

 

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