Seminario della Libera Università delle Donne
“Per amore di quale città? Donne tra città desiderate e città abitate”
22 gennaio 2011

Dalla città delle mescolanze alla città dei recinti
Sguardi di donne sulle mappe del vivere urbano

Floriana Lipparini

Senza dubbio la sensibilità, la competenza, la tenacia di professioniste come Gisella Bassanini e delle altre architette e docenti di cui lei parla nel libro ci fanno sperare in un futuro che vedrà mutare il panorama architettonico e urbanistico secondo parametri che rispecchino finalmente il diverso sguardo del femminile, ma non possiamo nasconderci quante resistenze si oppongano a una metamorfosi di questo tipo.
Come rovesciare le gerarchie sociali e spaziali che finora hanno dato forma alla polis? Perché è così difficile  contaminare davvero con un diverso sguardo le regole del convivere e quindi la politica, l’architettura, l’urbanistica? Ecco il motivo del titolo dato a questo seminario, che ispirandosi al libro di Gisella vi aggiunge però un dubbio e un punto di domanda. Per amore di quale città?

Scrive Tiziana Plebani, veneziana, femminista. autrice di un interessante libro sul rapporto fra Venezia e le donne: “L’agio femminile di muoversi in città è prima di tutto indicatore della qualità dei rapporti tra uomini e donne, del grado di loro civiltà, ma sa anche essere indicatore del benessere collettivo: è in grado infatti di parlarci anche dell’agio dei bambini, degli anziani, degli stranieri, di coloro che esprimono differenze rispetto all’immagine tradizionale di un cittadino ‘neutro’. L’agio femminile di muoversi in città sta dunque al cuore della pienezza della cittadinanza.”

Ma com’è questa città oggi, in particolare Milano che è la città dove sono nata e che conosco?  Consente l’agio di cui parla Plebani? Corrisponde all’irrompere del femminile e delle differenze o al contrario le ingloba e le nasconde?

Penso al centro che dovrebbe essere il cuore vivo della polis, accogliente, ricco di incroci e di possibilità diverse, il luogo dove la città materialmente e simbolicamente rappresenta se stessa e la propria identità, il tipo di mondo che la abita. Ricordo che “andare in centro” per le ragazze della mia generazione era una cosa quasi eccitante, c’era un che di vibrante, un’aspettativa, anche un’allegria.
Oggi a me sembra invece che il centro di Milano rifletta quasi soltanto il luogo dei poteri  economici e della loro nuova veste sempre più disincarnata: ospita un numero sempre più alto di banche, di assicurazioni, di agenzie immobiliari, di società finanziarie… Di sera, a differenza di quanto avveniva ancora negli anni settanta, alcune vie e piazze centrali si svuotano. Perché? Forse anche perché il numero dei cinematografi è drasticamente diminuito. Perché di sera non sono più aperti nemmeno i bar, che hanno guadagnato abbastanza servendo pasti nell’intervallo di mezzogiorno a una folla di lavoratrici e lavoratori che sciamano via per una mezzora da uffici e negozi.

Il modo in cui si può vivere o non vivere il centro città è però significativo. Nell’Ottocento in piazza Duomo passava pure il carretto dell’ortolano ambulante, e fino agli anni Ottanta in molti edifici del centro convivevano famiglie borghesi benestanti e vecchi inquilini di umili origini che stavano lì da generazioni. Nelle vie di lusso resistevano normali botteghe di alimentari. A poco a poco queste differenze rispetto a una norma omologatrice tesa a levigare l’apparenza, queste “irregolarità” che rappresentavano nel loro stare insieme la realtà complessa e molteplice del mondo sono state progressivamente emarginate ed escluse.

Del resto i costi delle case anche nelle zone intermedie sono tali da espellere chiunque non abbia mezzi straordinari, riducendo quindi progressivamente il diritto di abitarvi a una classe abbiente omogenea al proprio interno. Anche moltissimi negozi di antica tradizione, i cui proprietari erano esperti e competenti sulle merci che vendevano, nel ramo magari da generazioni, sono stati acquistati con denari di probabile origine mafiosa da nuovi acquirenti che non sanno nulla di ciò che vendono e ai quali è inutile domandare un parere, un consiglio sulle scelte.

La composizione antropologica e sociale della città dunque cambia non per il fisiologico arrivo di nuovi abitanti di diverso ceto e provenienza – un’eterogeneità che è sempre stata fonte di arricchimento umano e culturale - ma per l’arrivo di capitali di dubbia origine che ne stravolgono profondamente i caratteri.
I giganteschi profitti legati alla speculazione edilizia – terreno elettivo delle mafie - hanno prodotto guasti irreparabili. Interi quartieri sono stati sventrati cancellando la memoria delle vite, degli eventi, delle singolarità… Parlo del Garibaldi, dell’Isola, di parte del Ticinese, della zona  Bligny-Sabotino divorata dalla Bocconi. In altri paesi i campus universitari stanno fuori città, in mezzo al verde, e non alterano la fisionomia dei quartieri, spodestando le vecchie botteghe non più funzionali alla “magnificenza accademica”, facendo oltretutto lievitare i prezzi delle case.

L’immagine di Milano  “ripulita” dalle differenze, sempre più “verticale” per accentuarne l’identità business con i nuovi grattacieli del centro direzionale, o lo stravolgimento della stessa Stazione Centrale dove rischi di perdere il treno perché ti obbligano a seguire l’infinito percorso shopping delle vetrine griffate, racconta una profonda trasformazione del senso del vivere urbano, segnalando non già il progresso verso una feconda pluralità e mescolanza, e una maggiore socialità, ma al contrario un irrigidirsi della divisione in vere e proprie caste di censo e di categoria e un accentuarsi della trasformazione della città stessa in gigantesca “vetrina”, potremmo dire in una “città-marketing”, direttamente, senza nemmeno più mediazioni.
Ma dove esistono e si producono caste si producono specularmente e inevitabilmente gli esclusi, i diversi, i paria. Si tratta quasi di una pulizia etnica. Una verità che emerge con prepotenza quando si scopre l’esistenza del Cie (Centro di identificazione ed espulsione), quel “buco nero” dove si confinano e s’incarcerano come in un lager persone di origine straniera non perché colpevoli di crimini ma solo perché prive di permesso di soggiorno. Negando il principio antico e quasi sacro dell’accoglienza, che nel Novecento si era identificato con lo spazio della metropoli come promessa di libertà, perché un riparo di qualche genere, un posto e un modo per vivere e lavorare prima o poi lo avresti di sicuro trovato, nella città ci si conforma oggi invece a un’ideologia segregazionista che sta dilagando come un virus mortale in tutto l’Occidente.
Paradossalmente, poi, sono proprio quei nuovi cittadini sempre a rischio di espulsione o di carcerazione in un Cie, gli immigrati,  che sanno usare nel pieno senso del termine, con totale naturalezza,  alcuni spazi urbani che noi invece abbiamo abbandonato: la domenica le comunità fanno capannello in piazza Duomo portandovi colori, suoni e odori, oppure, quando il tempo lo permette, organizzano picnic nei parchi, con una frotta di vivacissimi bambini…

E ai cosiddetti autoctoni che sta succedendo? Invece di riappropriarsi dello spazio urbano per ritrovare il senso, molti preferiscono cercare soluzioni alternative ispirate a concezioni del tutto opposte: da una parte le “gated communities” per ricchi elitari che scappano dalla mescolanza per rifugiarsi in una inviolabile privacy, dall’altra le nuove esperienze di “cohousing” che puntano invece a ricreare intensi rapporti umani e di vicinato, stili di vita rispettosi dell’ambiente, condivisione dei servizi e della gestione amministrativa e tecnica. Tuttavia, inevitabilmente, anche chi opta per il cohousing, mosso dalle migliori intenzioni, rischia di ritrovarsi in una comunità in qualche modo artificiale, selezionata all’origine, protetta. Un’isola per fuggire dalla pazza folla.

Da cosa si fugge? Da una città svuotata del proprio centro vivo, e frazionata in una serie di recinti separati, una città  che sempre meno è il luogo dello scambio e della interazione sociale – ragione per la quale le città sono nate - ma diventa essa stessa un recinto protetto da barriere visibili e invisibili, insomma una gabbia, seppure, per alcuni, una gabbia di lusso.

Tutto questo come interroga le donne, come ci interpella? È una domanda gigantesca. Può questo modello di città postmoderna nel senso peggiore del termine esprimere il nostro desiderio di riappropriarci della vita, del tempo e della socialità? Hanno soggettività le donne nel processo di costruzione della polis? L’hanno mai veramente avuta professionalmente e socialmente? Io naturalmente guardo le cose da un punto di vista di semplice cittadina perché non sono né un’architetta né un’urbanista. Noto però che sono stati proprio alcuni collettivi di donne negli scorsi decenni  a ragionare sulla qualità delle città, dando vita ad analisi e riflessioni di cui credo poi le professioniste attente al discorso femminile/femminista  hanno anche tenuto conto (e Gisella questo lo racconta, nel suo libro).

A mio avviso questo significa che in alcune donne esiste la matura consapevolezza di un’estraneità del femminile rispetto alla piena cittadinanza, rispetto a un senso di appartenenza e di uso della città, paradossalmente per certi aspetti un’estraneità più forte persino rispetto a un lontano passato in cui però la città era meno asettica e più attraversata in ogni sua parte da realtà che hanno a che fare con la riproduzione dell’esistenza quotidiana, insomma con i corpi, con le nascite, con le morti... Nello spazio che oggi chiamiamo Largo Augusto c’era il Verziere, nei pressi di corso Buenos Aires c’era il lazzaretto, il lavatoio come molti sanno era dentro il Naviglio, e su tutta la cerchia interna dei Navigli allora scoperti (quindi anche in via Francesco Sforza) passavano i barconi carichi di merci di ogni tipo. Molti edifici del centro includevano alla base apposite nicchie usate come sedili, perché era naturale starsene sedute fuori casa, per strada. Insomma, il centro città non era al riparo dagli aspetti più materiali dell’esistenza.
Con questo non voglio assolutamente idealizzare un passato che sappiamo essere stato anche feroce e comunque sempre ingrato per le donne. Ma mi chiedo: sono le case a fare di uno spazio una polis, o il modo in cui sono concepiti gli spazi d’incontro, di sosta, di  socialità, di uso, e – come non citare Arendt? – di deliberazione collettiva, quegli spazi dove cittadine e cittadini hanno modo d’incontrarsi, di vedersi reciprocamente, di scambiare opinioni e decidere insieme sulle questioni del vivere comune,  cioè, secondo Arendt, di nascere davvero, di “venire al mondo” e di godere quella “felicità pubblica” che è a tutti dovuta.

Scrive sempre Plebani: “La vita pubblica sembra esaurirsi nel consumo, nei suoi riti e in un tempo libero, povero di socialità. L’urbanizzazione svuota la vita del quartiere, crea indefinite periferie: luoghi non di sosta ma di transito. Tra le case e i luoghi di lavoro e di consumo si transita. La città è assai di più di un insieme di case, richiede una poliedricità di spazi pubblici: luoghi e spazi in cui nutrirsi di bellezza, verde, cultura, spiritualità, silenzio o mescolanza”.
Proprio su temi come questi abbiamo riflettuto noi del gruppo 25.11, come poi verrà spiegato nel dibattito. Mi sembra un buon punto di partenza del discorso femminile sulla polis, per le donne ma anche per gli uomini e per qualsiasi altro essere vivente.
Le donne lo sanno bene: uscire dalle case, e dai confini imposti, per vivere l’esterno, lo spazio pubblico, è un gesto importantissimo, un gesto di rivolta e di radicale sovversione proprio perché il confinamento negli spazi domestici, rispetto alla libera circolazione nell’agorà spaziale e simbolica destinata agli uomini, è stata la prigione che ha escluso le donne dalla piena soggettività, da autodeterminazione e cittadinanza, e questo a partire già dalla civiltà ellenica, insuperabile produttrice di modelli patriarcali.
Nemmeno l’andirivieni della forza lavoro femminile, ormai diffusa ovunque, riesce a mutare le mappe del vivere urbano perché viene inglobata in uno schema precostituito che non ne viene realmente modificato. Non è dunque la città a trasformarsi secondo un nuovo principio ordinatore, sono le donne a doversi adattare a una città sempre più disegnata sull’accentuarsi della riduzione di ogni rapporto a merce, che dà sempre meno spazio alle singolarità del vivere e del convivere, e alle esigenze dei corpi (pensiamo solo al fatto che Milano è in assoluto la città più inquinata d’Europa se non del mondo).
Si rischia di frequentare la città soprattutto lungo circuiti e tempi prestabiliti dagli schemi di vita dominanti – la scuola, il lavoro, gli acquisti – e che tutto finisca lì. Si allontana invece la possibilità di vivere lo spazio pubblico collettivo nei tempi personali, soggettivi, i tempi lenti delle relazioni che non rientrano negli schemi del profitto ad ogni costo…

Ho letto che si considera siano state le donne le prime costruttrici di case, come tessitrici di ripari, una sorta di terza pelle (la seconda sono gli abiti). Ma questo avveniva in società ancora nomadi o seminomadi. Cosa che mi risveglia pensieri molto alternativi. Sul sito del Goethe Institut ho trovato un dossier su alcuni innovativi progetti di ricerca intorno alla città del futuro. Si va dalla “città sull’acqua” nel vecchio porto di Amburgo alla “slow city”, la città dei tempi lenti, dalla “metropoli verde” disseminata di orti quasi come un campo coltivato, alla “città globale europea” e alla “città degli anziani”.

Ma quello che più mi ha colpito sono i progetti di “città temporanea” e “città transitoria”, pensate per vite nomadi. Non so se si tratti di un salto nel futuro o nell’antichissimo passato, ma mi fa pensare immediatamente al soggetto nomade di cui parla Judith Butler. Può sembrare una forte contraddizione rispetto al discorso della piena cittadinanza, ma personalmente mi affascina perché esce totalmente dagli schemi, anche da quegli schemi di genere che hanno immobilizzato le donne dentro l’idea di una casa-rifugio-prigione.
Che sia questa l’unica possibile utopia per non consumare territorio, per un altro modo di abitare la terra, per  rinegoziare le modalità dell’abitare e della convivenza? Scompaginare totalmente l’idea di possesso stabile del territorio potrebbe forse essere una nuova, inedita forma di libertà.

 

 

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