Un’ipotesi alternativa di mondo

di Floriana Lipparini

Non credo che le donne abbiano voglia di “festeggiare” l’otto marzo.  E nemmeno che si debba fissare un giorno per denunciare le calamità che l’universo femminile continua a sopportare, dall’esclusione alle violenze, incluso il fatto che nonostante decenni di femminismo alcune giovani ancora accettino di omologarsi a un umiliante modello di non-persona, generato da un immaginario maschile profondamente malato.

Inoltre, lo spettro della povertà e della disoccupazione – tragedie che come la guerra colpiscono in particolare le donne e la loro condizione – automaticamente rafforza la pesante impronta maschile del sistema di poteri che governa le nostre vite e ne enfatizza gli aspetti più regressivi. In Italia ne abbiamo un chiarissimo esempio, con l’emergere di elementi autocratici, razzisti e fascisti in una società in larga parte pronta al consenso servile.

L’universo femminile, in tali casi, può addirittura ritrasformarsi nella riserva di salvifica generosità su cui sempre la società degli uomini si è basata in tempi difficili. Non basta, infatti, una crisi del capitalismo per modificare la struttura sessista del potere, perché è la struttura stessa del potere ad essere intimamente verticista e maschile, e immodificabile fin quando riuscirà a sopravvivere in questa forma.

Eppure, non possiamo certo rinunciare al diritto/desiderio di operare trasformazioni che incidano sulla vita di ciascuna di noi e sull’organizzazione delle società in cui viviamo.  C’è un’ipotesi alternativa di mondo che resta continuamente fuori della scena pubblica.
Per Hannah Arendt una delle caratteristiche dell’età moderna è la perdita del mondo, intesa come perdita della sfera pubblica, ossia quello spazio dove si può apparire, dove ci si può reciprocamente vedere, dove si può discutere e deliberare delle cose pubbliche, dove si può vivere la propria cittadinanza attiva mediante il discorso e l’azione. Questo, per Arendt, è il senso dello stare al mondo.

Ma, nei millenni, l’esclusione delle donne dalla costruzione sociale, civile e politica ha configurato lo spazio pubblico come una sfera separata dallo spazio della vita, uno spazio “professionale”, burocratico, sempre più alienante, dove si consuma a perfezione quella divisione mente/corpo e pubblico/privato che sta alla base di una generale perdita di senso della vita e della possibilità stessa di pensare il futuro.

Come potrebbe essere uno spazio pubblico inteso invece come spazio della parola femminile storicamente negata? Potremmo pensarlo come possibile sintesi fra pensiero e pratiche, come luogo di confronti e trasformazioni, come laboratorio-incubatrice di forme e visioni politiche alternative.
Potremmo usarlo per andare oltre le ricorrenti emergenze che ci costringono ad agire sempre di rimessa, come se fossimo senza peso e senza storia.

Non è certo di elaborazione che le donne mancano, è ricchissima la produzione femminile di pensiero politico critico, ricchissimo il corredo di saperi, esperienze e pratiche costituitosi nel tempo, nel segno della differenza. Purtroppo però è come se questa linfa, questa massa lussureggiante e vitale restasse invisibile e muta. Non si trasforma in parola pubblica e autorevole, nemmeno quando le voci provengono da sedi istituzionali, forse perché questo tipo di istituzioni e di strutture non ci corrisponde affatto, ma non riusciamo a iniziarne la trasformazione.

Manca una dimensione adeguata al modo di intendere e fare politica cui puntano le donne impegnate nel femminismo, un modo personale, relazionale, circolare, orizzontale... Un modo ancora in parte da teorizzare e costruire, e una dimensione che non si fermi ai vuoti riti della rappresentanza istituzionale tipici della democrazia formale, logora ricetta di cui ormai abbiamo visto tutti i limiti.

Mi piacerebbe molto – è solo un sogno? – iniziare a mettere in discussione l’idea che le uniche forme di democrazia siano queste, bianche, occidentali e patriarcali. Tutto un sistema costruito sulla presunzione che non esista altro, che non si possano nemmeno immaginare modalità differenti nel deliberare, legiferare, decidere: in altre parole, nel convivere e fare società.

Arendt l’aveva perfettamente capito: quando la rappresentanza diviene il sostituto della democrazia diretta, i cittadini possono esercitare il loro potere di agency solo il giorno delle elezioni “ancora una volta i cittadini non sono ammessi sulla scena pubblica, ancora una volta gli affari di governo sono divenuti privilegio di pochi […] il risultato è che i cittadini devono o sprofondare in letargo, prodromo di morte della libertà pubblica, oppure conservare lo spirito di resistenza a qualunque governo abbiano eletto, poiché l’unico potere che conservano è il potere estremo della rivoluzione” (Sulla rivoluzione, p. 275).

 

13-03-2009

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