Conversazione con Lisetta Carmi
di Lea Melandri

 

Ho conosciuto Lisetta Carmi nel 1972, quando uscì con una piccola casa editrice di Roma (Essedì Editrice) il suo libro di fotografie I travestiti, rifiutato dall’editore che lo aveva accettato e dalla maggioranza dei librai. Ripugnanza e orrore per l’argomento ne fecero in quegli anni un libro quasi clandestino, nonostante l’originale valore conoscitivo sottolineato dallo psicanalista Elvio Fachinelli nella Prefazione. Ritrovo oggi Lisetta nella splendida campagna della Val d’Itri, tra ulivi, trulli, tappeti di margherite e papaveri, l’ashram da lei fondato e la casa nel centro di Cisternino, paese di elezione da quasi quarant’anni. Le parlo subito della possibilità di ristampare il suo lavoro in un momento di grande interesse per queste tematiche. Ma lei mi sposta continuamente lo sguardo, mi avvolge con l’appassionato racconto delle sue “cinque vite”, perché, mi spiega, “l’opera di un artista va giudicata nella sua interezza, a ciclo compiuto”.

Lea

Il tuo percorso esistenziale e artistico è contrassegnato, a prima vista, dal susseguirsi di fasi diverse, e quindi di svolte nette: il pianoforte, la fotografia, l’incontro col maestro induista Babaji e la fondazione di un’ashram a Cisternino, la ripresa della musica e della pittura con Paolo Ferrari, del Centro Studi Assenza, e il momento attuale che tu chiami “il periodo di totale libertà”. Io invece vedo nella tua singolare esperienza, una linea di continuità, che riassumerei così: l’amore per la vita nei suoi aspetti molteplici e contraddittori; la forza e la coerenza nel tenere insieme ricerca interiore, creazione artistica e impegno sociale; infine, la lezione che ti è venuta dallo studio rigoroso della musica, quella concentrazione e solitudine che tu stessa riconosci aver  “dato equilibrio” al tuo carattere ed essere rimaste come sottofondo alla fotografia.

Lisetta

Mi ritrovo totalmente in questa descrizione della mia vita. Sono nata in una famiglia borghese e non amo le famiglie borghesi, anche se la mia era una bellissima famiglia, due genitori intelligenti e molto severi. Non ho potuto identificarmi con mia madre, una grande artista che, sposata a ventidue anni e con tre figli, non ha potuto realizzarsi come voleva. Me lo ha confessato nell’estrema vecchiaia, quando è venuta ad abitare con me nel trullo a Cisternino, cinque anni prima di morire, a cent’anni. Ero l’unica figlia femmina e da piccola avrei voluto essere un maschio, perché papà era un uomo straordinario e così i miei due fratelli, Eugenio e Marcello. Ho accettato, e con gran gioia, di essere una donna soltanto alla fine del lavoro che ho fatto coi travestiti. Quando l’ho fatto vedere allo psichiatra Sergio Piro, alla domanda “Ma lei si identificava come uomo o come donna?”, io ho detto “Né come uomo né come donna, perché esistono solo gli esseri umani”. A quel punto ho capito che ero felice di essere una donna, che rifiutava il ruolo femminile ma non la sua appartenenza di sesso. Ma l’avvenimento che ha cambiato più profondamente la mia vita è stato l’incontro con Babaji. Quando l’ho visto a Jaipur, l’ho riconosciuto come il mio guru da sempre. Insegnava in modo particolare, non con le parole ma coi fatti, con gli atteggiamenti, le cose. Mi ha insegnato che il denaro non è nostro, ma ci viene affidato da Dio per il bene di tutti, per cui va dato a ognuno secondo il suo merito o il suo bisogno. Quello che ha dato una misura alla mia vita è l’amore per l’umanità e la ricerca della verità.

Lea

Tu hai detto spesso che eventi di grande spessore, anche tragici, hanno attraversato la tua vita, a partire dalle leggi razziali che nel 1938 ti hanno costretta, a soli quattordici anni a lasciare la scuola e poi a fuggire in Svizzera con la tua famiglia. Ma sempre hai aggiunto che ti hanno aiutata a crescere, a condividere il dolore del mondo, a metterti dalla parte di chi soffre, di chi il potere lo subisce. Non una scelta, quindi, ma una “inclinazione”, legata a una sofferenza e a una ricerca personale: l’essere ebrea, donna, comunista, sopravvissuta alla persecuzione razziale. Da qui la partecipazione profonda per quell’ “universo umano oscuro” dei “senza voce”, a cui hai cercato ogni volta di dare storia, visibilità, attraverso il tuo raccontare o “scrivere con la macchina fotografica”. Quella che è entrata nel tuo lavoro è l’umanità dolente degli emarginati, la parte di sé che si rifiuta o non si vuole vedere, ma è, contraddittoriamente, anche il piacere di liberarsi di vincoli, convenzioni, poteri e artifici inutili. Tu hai voluto fermare lo sguardo su ciò che appare ‘impresentabile’ della vita: la nascita nella sua naturalità , come nelle fotografie sul parto fatte nell’ospedale di Galliera, la morte nella visione autoritaria e erotica che la borghesia genovese di fine ‘800 ne ha dato nel cimitero di Staglieno, l’inferno dei portuali di Genova, la disperazione e l’ombra di un poeta vicino alla fine, nei dodici scatti ‘rubati’ a Ezra Pound nel 1966 a Sant’Ambrogio di Rapallo. Nello stesso tempo è come se tu avessi voluto mostrare, in questi aspetti rifiutati, i segnali di una libertà sconosciuta, di una umanità diversa.

Lisetta

Ti faccio un esempio. Io sono stata in Venezuela per tre mesi e ho frequentato molto i rivoluzionari, i professori universitari, avevo molti contatti. Poi sono andata a Maracaibo, che allora era una delle città più ricche del mondo, con una immensa quantità di petrolio  e una povertà infinita. Uno dei servizi, pubblicati sulla rivista “Nuovi argomenti”, era sui negozi di poverissime persone, che avevano negozietti di legno con insegne che dicevano: “Mi ultimo esfuerzo”, “La sucursal del cielo”, “Libreria pobremente”, “Mi ultima esperanza”, “No vendo vicios”. Titoli meravigliosi! Il servizio su Maracaibo mostra un quartiere poverissimo ma allegrissimo. A Maracaibo ho fotografato anche un basurero, il posto dove buttavano la spazzatura. Era una distesa immensa, tutta fumante, piena di spazzatura, chiusa. I camion arrivavano, aprivano e la buttavano giù. Subito arrivava la folla dei poveri di Maracaibo a raccogliere quello che si poteva ancora vendere. C’è una fotografia con tante facce di  ragazzi che vengono fuori ridendo da una montagna di basura. Avendo un grande amore per le persone, avevo con la gente un rapporto diretto. Nessuno si rifiutava, capivano che li fotografavo col cuore, che non andavo a fotografare la miseria coi soldi dei giornali ricchi. E’ stato così anche coi portuali di Genova. C’era uno che mi veniva a prendere da casa alle cinque e mi portava sul porto, dove mai mi avrebbero fatta entrare, comunista com’ero, perché sapevano che avrei fatto un lavoro contro la borghesia genovese. “Lisetta  -mi dicevano- tu vieni a fotografare le formiche!”, e tuttavia mia amavano moltissimo, perché vedevano che lavoravo per loro.

Lea

Io ti ho conosciuta l’anno in cui hai pubblicato il tuo lavoro sui travestiti di Genova, nel libro omonimo edito da Essedì Editrice di Roma nel 1972, con una Prefazione di Elvio Fachinelli. Quella ricerca mi sembra che sia tuttora la più complessa, la più densa di investimenti intellettuali, fantastici, emotivi, personali. Nella figura del travestito, ricercato e respinto dalla società, confluiscono la persecuzione contro gli ebrei e l’omofobia, la paura del diverso, dell’effeminato, il travaglio della donna contro un ruolo imposto e della borghese ribelle e tragressiva. Ma vi si legge anche il piacere di potersi identificare con chi, mosso da coraggio e provocazione, aveva cercato di uscire da rapporti standardizzati e violenti, con quella che appariva come un’ “avanguardia contraddittoria”, segnale della crisi del rapporto uomo-donna. Tu stessa hai definito i sei anni trascorsi con loro, in una frequentazione quotidiana, “quasi una terapia”.

Lisetta

Invece di andare per sei anni da uno psicanalista e spendere soldi senza risolvere nulla, ho fatto questo lavoro sui travestiti che mi ha fatto capire molte cose della mia vita. Nel mondo borghese io vedevo tanta ipocrisia. Quando ero particolarmente triste e ribelle di fronte a una società che vuole apparire diversa da come è, andavo da loro: persone sfruttate, aggredite, giudicate male dalla società, però vere. Sono stata attirata dal loro essere e non essere uomini e donne nello stesso corpo; vedevo in loro una verità, un’allegria, un vivere ‘altro’ che mi ha aperto quella porta che il mondo borghese non vuole varcare, chiuso nella finzione e nelle false sicurezze. Io sono contro la famiglia, che considero una prigione, mi piacciono le famiglie allargate. Quando sento dire “mio figlio”, “mia moglie”, “mio marito”, penso: “ma che follia! Non c’è niente di nostro su questa terra, neanche il corpo è nostro, ci è dato perché noi possiamo crescere”.

Lea

Nella trascrizione grafica del Quaderno musicale di Luigi Dallapiccola (Ed. Sedizioni, Milano 2005) ho trovato molte considerazioni che potrebbero essere riferite a te. Di Dallapiccola dici: “un uomo sensibile a molti e gravi problemi di oggi…un artista che difende nel suo isolamento, nel suo vivere appartato, la sua libertà interiore, per poter esprimere musicalmente la sua originale partecipazione alla vicenda umana del secolo XX “. In un altro passaggio scrivi: “Soltanto affermando sinceramente e coraggiosamente noi stessi, possiamo dire una parola valida nel tempo per noi e per gli altri”. Sono questi due aspetti che io vedo in te e nel tuo lavoro: la sensibilità profonda ai problemi del mondo, nei vari contesti in cui ti sei trovata a vivere, tra culture diverse, e il modo originale con cui questa passione di condividere si è legata in tutto il tuo percorso alla solitudine, alla rigorosa ricerca di una libertà interiore. Per strade diverse, io ho imparato dal femminismo che è solo partendo dalla storia personale che si possono capire gli altri.

La gente confonde generalmente la solitudine con l’isolamento, con la perdita di ogni interesse. Io la considero, al contrario, un privilegio, a volte anche doloroso. Da un certo punto in avanti, ho sentito proprio il piacere di un intrattenimento tra sé e sé, pieno delle voci, dei volti e di tutte le storie di cui siamo fatti.

Lisetta

Sono totalmente convinta di questo: se uno non analizza la propria interiorità, se non vive intensamente la propria vita,  non può capire gli altri. Qui, attorno a me, c’è tutto: isolamento e partecipazione totale al mondo. In un mio scritto leggo: amava il silenzio, perché parlare disperde.

 

questo articolo è apparso su D La Repubblica del 29 settembre 2007

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