Procreazione assistita, cosa c'è veramente dietro la proposta inglese
di Lea Melandri


Sarah Sze

Se gli esseri umani diventano appendici delle macchine che hanno inventato

Mentre sono ancora vive le immagini dell’attentato alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 e si seguono con ansia, dubbi, conflitti le misure repressive e le reazioni xenofobe che l’hanno accompagnato, il governo Blair esce con una proposta imprevista, che sembra muoversi in tutt’altra direzione. Si tratta di una consultazione pubblica, via Internet o lettera, per decidere se e come cambiare dopo 15 anni la legge sulla procreazione assistita, la prima approvata in Europa. Tra le novità, riportate dal Corriere della sera (18.8.05) figurano: la possibilità di far scegliere ai genitori il sesso del nascituro, per scongiurare una malattia ereditaria, o semplicemente per “riequilibrare” la composizione della famiglia, oppure  per ragioni economiche, culturali o religiose; la creazione di gameti artificiali dalle cellule della pelle o di altre parti del corpo, che consentirebbe alle coppie gay di avere figli senza ricorrere a “donatori” esterni; la proibizione o la regolamentazione per legge della vendita di ovuli e spermatozoi; la cancellazione del vincolo che impone al medico di tenere conto del bisogno del nascituro di “avere un padre”. Aperto fino al 25 novembre, il sondaggio, che farà sicuramente discutere, prospetta uno di quei ribaltamenti di scena, complici i poteri politici e mediatici, a cui per abitudine non si fa quasi più attenzione: dalla morte alla vita, dalla paura alla speranza, dalla restrizione delle libertà e dei diritti civili ai nuovi spazi aperti ai desideri e alle scelte più intime del singolo cittadino.

Se la contrapposizione non fosse così vistosa, si potrebbe pensare che un utile sipario sia venuto a coprire la drammaticità degli eventi e del conflitto sociale che hanno prodotto. Gli stessi cittadini che ieri venivano pressantemente spinti a convivere con le bombe, i corpi straziati, la paura quotidiana, il sospetto, l’insicurezza, la perdita di libertà essenziali di movimento e di opinione, oggi sono invitati, dietro l’apparente democraticità di un sondaggio, al banchetto dei sogni realizzati, del miracolo scientifico, dell’onnipotenza e della fiera dell’immaginario. Svincolata da finalità “terapeutiche” –l’infertilità, le malattie ereditarie, ecc.-, l’enfasi che accompagna la sperimentazione delle tecnologie riproduttive mostra in modo più chiaro il vuoto da cui trae alimento: assenza o debolezza di un progetto riguardante la vita che c’è già, la moltitudine di uomini e donne su cui pesano minacce di ogni sorta: guerre, disparità economiche, malattie, migrazioni, degrado ambientale, odi e conflitti etnici.

Anziché tentare di rimuovere le cause della distruttività dilagante nel tessuto sociale, si fa in modo che lo sguardo si sposti verso un suo magico perfezionamento: figli più belli, più sani, più intelligenti, selezionati preventivamente alla nascita. Esperienze essenziali che riguardano ogni individuo –il rapporto con la natura, col corpo, la diversità dei sessi, le relazioni parentali- passano sull’orizzonte impersonale della scienza, della medicina, della legge, patrimonio di quei pochi che sono in grado di valutarne benefici e disastri.

L’autonomia crescente della tecnica e del mercato, che già condizionano pesantemente la vita pubblica dettando legge a chi dovrebbe dirigerle verso fini di utilità collettiva, rischia di fare danni ancora maggiori su quel terreno di relazioni che si è creduto per lungo tempo al riparo dai conflitti della civiltà. Nell’entusiasmo di poter finalmente sottrarre a un destino biologico eventi come la nascita, l’invecchiamento e la morte, si rischia di non vedere che la “naturalizzazione”, per una sorta di contrappasso, sta interessando oggi i saperi e le istituzioni che si volevano più specificamente “umane”, “culturali”, creazione deliberata del soggetto della storia. A dire ciò che è reale, possibile e quindi fattibile, sono oggi le scienze, la medicina, la produzione e il consumo, quasi che una “seconda natura” artificialmente costruita dall’uomo si prendesse la sua rivincita.

Affannarsi ogni volta a porre un limite -etico, giuridico- alla sperimentazione genetica ha senso solo se si tiene conto di questa progressiva, sia pure impercettibile, alienazione che fa dell’uomo un’appendice delle macchine che ha inventato.

Abituati, e oggi spinti più che mai, a ragionare per opposizioni binarie  -Bene/Male, civiltà/barbarie, tolleranza/chiusura estrema, amore/odio-, è facile che ogni critica o problematizzazione che rivolgiamo alla scienza venga tacciata di oscurantismo, ritorno a un improbabile paradiso di “natura”. Se ci si oppone alla selezione genetica del sesso, o alla creazione di gameti artificiali, che renderebbero possibile un’origine “omogenea”, interna a un solo sesso, non è per nostalgie biologistiche, darwiniane, ma perché entrambe queste scelte operano una violenta cancellazione della storia che ha segnato il rapporto tra i sessi, l’esperienza della sessualità e della genitorialità, i legami con cui si sono da sempre intrecciati con i saperi e le strutture della vita pubblica.

La nascita di un maschio o di una femmina non è mai stata neutrale o indifferente presso alcun popolo, classe sociale e cultura. L’attesa di fronte a una gravidanza era, ed è tuttora per molti, gravata dalla diversa collocazione materiale e simbolica che è stata data alla femminilità e alla maschilità. Le ragioni “economiche, culturali, religiose”, a cui la riforma della legge inglese del 1990 vorrebbe dare soddisfazione dietro l’apparente “libertà” della scelta del sesso del nascituro, sono proprio quel fondamento di potere, simboli, valori, su cui si è retto finora il dominio maschile, la differenziazione violenta che ha collocato l’uomo e la donna sulle sponde opposte della natura e della storia. Al di là delle preoccupazioni per una possibile, e neanche tanto irreale, “deriva eugenetica” nella scelta del figlio o figlia ideale, e al di là della cancellazione che si viene operando su quella imprescindibile alterità che è per l’uomo la natura, il corpo  -limite, ma anche imprevisto, risorsa, stupore-, va considerato l’azzeramento che l’opzione tecnologica opera sulla consapevolezza e la riflessione che si sono da poco aperte sulla vicenda dei sessi, lo sforzo di restituirla alla cultura e alla storia. Consegnarla invece alla “naturalità” di un inarrestabile, discutibile “progresso” scientifico, non sarebbe certo un passo avanti.

Un ragionamento analogo si può fare per la “libertà” che verrebbe data alle coppie gay e ai singoli, di usufruire di gameti artificiali, prelevati dalle cellule della pelle degli interessati, per evitare interferenze generative esterne. A parte la sottovalutazione della gravidanza, che per una coppia di maschi comporterebbe comunque il ricorso a una donna, come si può non tenere conto che il sogno di un’origine “omogenea”, di una genealogia di un solo sesso, è stato l’asse portante, immaginario, di quella contesa per il potere riproduttivo che ha contrapposto un sesso all’altro, e che oggi sembra prendere corpo nella fantasia dell’utero artificiale? Difficile anche dimenticare che l’espulsione dell’altro, del diverso, si porta dietro l’orrore di tutte le “pulizie”, etniche, religiose, più o meno violente, che la storia ha conosciuto e con cui quella sessuale è in qualche modo imparentata, non fosse altro che per il suo aspetto originario.

L’incentivo a far figli “comunque”, a qualsiasi costo di denaro, sofferenza fisica e psichica, esiti incerti o decisamente pericolosi, in un contesto sociale in cui la vita è più che mai minacciata, non può che colorarsi di sospetti mortiferi  -“carne da macello”-, di nascoste bellicosità  -arginare la prolificità degli immigrati-, di interessi mercantili, avvalorati dalla prospettiva di una compravendita di ovociti e spermatozoi, e, perché no?, di embrioni, organi sostitutivi, bambini già nati. A chi obietta che tutto questo già avviene e che affannarsi a porre limiti all’inarrestabile voracità della sperimentazione scientifica sarebbe una “battaglia di retroguardia”, si può rispondere, innanzi tutto, che questa non è una buona ragione per distogliere lo sguardo, che l’adattamento, a cui oggi siamo chiamati di fronte a ogni tipo di atrocità è un invito alla resa, come rinuncia alla responsabilità, al senso civile e morale, a possibili scelte alternative.

L’idea di ciò che è reale e possibile è già, per certi aspetti, cambiata con l’acquisizione di consapevolezze, analisi e trasformazioni fino a poco tempo fa inimmaginabili. Basta pensare a quelle due “invarianti” della storia che sono parse per secoli l’amore e la guerra, il dominio maschile e la virilità guerriera, la copertura naturale o ideale che ne ha accompagnato e occultato gli aspetti più distruttivi. Se il sogno d’amore, come fusione di due esseri in uno, a distanza di un secolo da Freud che l’aveva visto come il “modello di ogni felicità”, ha potuto far nascere in Pierre Bourdieu (Il dominio maschile, Feltrinelli 1998) il dubbio che sia in realtà la più insidiosa, perché la meno visibile, delle violenze simboliche, forse c’è speranza che cada anche l’altro pilastro della civiltà:la guerra come sacrificio di vite propiziatorio per le sorti di un popolo.

questo articolo è apparso su Liberazione del 21 agosto 2005