Abu Ghraib e dintorni
di
Vittoria Longoni

Artemisia Gentileschi
Le terribili fotografie da Abu Ghraib con
donne che partecipano alle torture, ne godono, ne traggono motivi di
orgoglio e trofei da mostrare, sono un campanello d’allarme e un motivo di
riflessione per tutte noi e una preoccupante e orribile novità per
l’opinione pubblica islamica, di cui confermano i peggiori stereotipi
sulla femminilità occidentale; inoltre ne rafforzano il maschilismo,
perché ne forniscono un’immagine speculare.
Devo dire però che, per quanto riguarda me,
almeno due elementi hanno attenuato l’effetto di sorpresa di queste
immagini, che non mi sono risultate del tutto imprevedibili (intendo dire
la sorpresa di trovare anche delle donne in queste vesti di torturatrici;
non hanno invece attutito per nulla i sentimenti di scandalo per le
torture, di orrore e di totale opposizione a questa nefasta guerra in
tutte le sue manifestazioni): la riflessione sul ruolo delle donne-kapò
naziste, rinfrescata dalla lettura abbastanza recente delle opere di Helga
Schneider (in particolare “Lasciami andare, madre”) che ha
riproposto il tema del fortissimo attaccamento sadico-masochista di alcune
donne alle forme peggiori dello sterminio sui più deboli, o sui più
“indegni”, e l’adesione cieca a principi totalitari; e la riflessione
sulle dinamiche dell’emancipazione, che facilmente comporta la rinuncia
alla propria femminilità profonda, l’imitazione succube dei comportamenti
maschilisti e violenti, lo sfogo su una persona in condizioni di maggiore
debolezza (uomo o donna o bambino che sia) delle proprie frustrazioni, in
una specie di rivalsa speculare che rovescia l’oppressione subìta in
prevaricazione agìta.
Non è certo da oggi che la tortura è legata
alla sessualità e all’umiliazione sessuale dei vinti. Sono stata di
recente ad Auschwitz e la guida ci ha informato sui motivi dell’ossessione
nazista per la raccolta delle scarpe dei prigionieri: facevano indossare
agli uomini dei campi di concentramento delle scarpe coi tacchi, e alle
donne delle scarpacce da uomo, per umiliarli e metterli in difficoltà e in
ridicolo ancora di più. Ma possiamo anche risalire più indietro, nella
storia, e rileggere per esempio i numerosi passi dell’Iliade in cui
si presenta l’accanimento sadico dei vincitori nei confronti dei corpi
denudati dei vinti uccisi, le espressioni sarcastiche che evocano la
“morbidezza” di questi cadaveri inermi (il libro XXII del poema ne
contiene esempi di terribile e tragica evidenza).
Certamente, nell’immaginario umano la parte
perdente, soccombente, è associata al femminile anche perché la
femminilità è stata oppressa, e la stessa sessualità delle donne, a
livello immaginario e a volte a livello reale, si nutre di queste fantasie
sadomasochiste. A questo scenario plurimillenario si associano poi, negli
ultimi secoli, anche le dinamiche storiche e immaginarie
dell’emancipazione.
La ragazzina che fa osceni gesti di vittoria
sui corpi nudi dei prigionieri, o che li tiene al guinzaglio, percorre una
forma perversa di emancipazione in cui la sua evidente e ottusa
soddisfazione si alimenta della rivalsa sulla propria condizione di
donna, di persona povera e poco istruita, che trova nell’esercito un luogo
di lavoro, un ruolo sociale, e aderisce a tutti i comandi, espressi o
impliciti, per farsi accettare dai capi e perché ne gode.
La donna di grado ben più elevato che dirige
il carcere è l’ultima e più degradante espressione di “donna in carriera”,
mentre la sua sofisticata collega che fa la consigliera di Bush appunta
tutta la sua brillante intelligenza al servizio del capo dell’Impero
ricavandone una malriposta rivalsa per tutte le sue ambizioni e
frustrazioni di donna nera.
L’emancipazione comporta sempre qualche
forma di sacrificio della propria femminilità, dal caso della madre di
Helga che abbandona i suoi due bambini per arruolarsi nelle SS fino alle
torturatrici di Abu Ghraib che ripropongono contro i prigionieri
comportamenti insieme sadici e masochisti (perché la tortura esercitata è
sempre anche una possibilità che riguarda il torturatore, e che lo degrada
intimamente).
Allora, non è il caso di gridare
ingenuamente allo choc perché scopriamo che anche delle donne possono
essere crudeli: abbiamo visto madri infanticide, kapò, madri che difendono
i figli violentatori, donne capaci di sadismi anche sottili e mascherati.
Non si tratta neppure di stupirsi perché le donne sarebbero invece
portatrici, di per sé, di valori pacifici, collaborativi e umani.
Vale la pena, invece, di riflettere sul
nesso che, nella sessualità anche femminile, collega spesso amore e morte,
piacere e sadomasochismo, e sulle dinamiche emancipative che costringono
spesso le donne a essere esecutrici e imitatrici passive di modelli
maschilisti, autoritari, che negano le manifestazioni più autentiche e più
mature del sé.
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