Una letteratura al femminile: Assia Djebar

Luciana Percovich

 

Per introdurre una scrittrice - storica - cineasta - femminista tra le più complesse e ricche operanti sulla scena contemporanea internazionale cercherò semplicemente di suggerire le ragioni per cui vale la pena di leggere e/o di proporre la lettura di Assia Djebar, convinta che - se non esistesse - una donna come lei bisognerebbe davvero inventarsela, tale è il guadagno che si può ricavare dalla lettura dei suoi libri.

Perché leggere Assia Djebar?

Innanzi tutto e molto semplicemente per soddisfare un bisogno di conoscenza, una nostra salutare curiosità: per capire se noi europee e lei nordafricana abbiamo qualcosa in comune, dietro l'apparente distanza e alterità. Anche perché più che di distanza, bisognerebbe parlare di vicinanze: una vicinanza fisica (donne come lei, con il velo o senza, ora le incrociamo quotidianamente all'uscita di scuola, al mercato o pigiate sullo stesso tram), una vicinanza geografica (stanno sull'altra sponda del nostro stesso mare), una vicinanza storica e culturale (condividiamo la sorte di essere donne nel luogo - il Mediterraneo, appunto - che ha fatto da bacino di incubazione alle religioni monoteiste).

In secondo luogo, se desideriamo prendere coscienza, coscienza critica, su cos'è l'Islam, e le culture arabe, e sbarazzarci dei cliché interpretativi consueti: dall'orientalismo - ormai fuori moda - e che tuttavia ha fatto da filtro per alcuni secoli a ciò che all'Europa piaceva pensare che fosse il "vicino oriente" con i suoi colori, odori, mille e una notte e misteriosi harem, al fondamentalismo del tempo presente, etichetta sbrigativa con cui respingere in blocco ogni contatto col diverso, con le donne diverse da noi semplicemente perché supposte mogli succubi e infide, madri di futuri terroristi e separate da noi da veli più impenetrabili di cortine di ferro.

E infine se desideriamo davvero - perché lo riteniamo un compito non eludibile - ampliare la ricerca della nostra soggettività di donne non contenibili da nessuna patria di appartenenza, aggiungendo una tessera in più al mosaico di identità che stiamo costruendo con le donne del mondo: quella dell'essere donne nell'Islam.

Leggere Assia Djebar (e relativamente a quel che dirò di seguito il mio riferimento è a tre sue opere, Donne d'Algeri nei loro appartamenti, Lontano da Medina e L'amore, la guerra) risponde perfettamente a questo tipo di domande: colma un nostro vuoto di conoscenza, alleggerisce i nostri immaginari intasati da stereotipi e malinformazione, ci permette di gustare una raffinata ed emozionante scrittura. E, in maniera inaspettata, ci apre a imprevisti ampliamenti e ribaltamenti di prospettiva, a nuovi e più complessi scenari.

 

In che cosa consiste dunque la complessità del suo lavoro e di questi imprevisti scenari?

Occorre ricordare che Assia Djebar è contemporaneamente scrittrice (di racconti, romanzi, poesie), storica, cineasta e femminista, e di questo intreccio si sente la traccia in ogni suo lavoro. Tralasciando in questa sede il suo lavoro di cineasta, che tuttavia è quello che l'ha fatta conoscere al grande pubblico allorché fu invitata al festival di Venezia nel 1979, dove ricevette anche un premio, dirò brevemente di lei scrittrice, storica e femminista.

Come scrittrice, Assia Djebar occupa un posto importante tra i maggiori autori delle letterature post-coloniali, che sono senza dubbio la produzione creativa più originale, ricca, viva del nostro secolo. La ricerca della propria identità, della propria storia come individui e come popoli, intrecciate con la storia e nella lingua dei colonizzatori sono lo sfondo comune a questa letteratura, che poi ogni autore ovviamente interpreta a modo suo. Che cosa ha in comune con scrittori come Salman Rushdie, pakistano, Anita Desai, indiana, Buchi Emecheeta, nigeriana, Edoard Glissant, antillano, Césaire, martinicano (solo per citare alcuni di un elenco che potrebbe continuare a lungo)? E che cosa segnala la sua diversità dentro alla mixed salad di queste voci che, usando le lingue dei colonizzatori, danno forma e visibilità con le loro scritture alla scommessa di una nuova cultura meticcia?


Come storica, raccoglie la sfida di scrivere la storia della sua nazione colonizzata, l'Algeria. Per fare ciò le è necessario lavorare su un doppio fronte, rivisitare la memoria religiosa del suo popolo, risalendo fino alla sua fonte, il Corano, e riscrivere la storia della colonizzazione francese (iniziata nel 1830) e della guerra d'indipendenza (1962). Inutile dire la pericolosità di entrambi i terreni. E' necessario dotarsi di un metodo di ricerca inattaccabile e insieme spregiudicato, che per lei sarà il ricorso documentato alle fonti scritte - il discorso dei vincitori - messo a reagire con la memoria delle fonti orali, i racconti che le antenate passano di generazione in generazione, per discendenza femminile, dentro al luogo chiuso della casa e del gruppo famigliare, memoria iscritta nei corpi, parola invisibile dall'esterno, e tuttavia scheletro che sorregge e dà senso all'intero organismo, "lievito inconsapevole di figli adolescenti, improvvisamente risoluti a combattere e a morire … tutte quelle donne, sedute in mucchi dentro quella stanza".

Questo viaggio nella storia la conduce a imbattersi in una immagine, quella dell'Algeria che ora le appare come una donna, che non ha (avuto) diritto di parola, che non ha (avuto) accesso alla scrittura, perché a coprire il suo sapere e la sua lingua, ricacciate indietro e forzatamente dimenticate, i conquistatori hanno imposto la propria lingua, la propria cultura, la propria legge. E l'identità del presente si è costruita in questo impasto inconsapevole, privo di prospettiva storica, che ha aderito alla pelle come una maschera troppo a lungo indossata e di cui ci si è scordarti di portarla, finendo per scambiarla per il proprio volto.


Come donna e femminista, Assia Djebar è mossa dal bisogno di scrivere la sua storia e la memoria delle sue antenate, dall'urgenza di portare alla luce la vita dentro le case, dietro le file di persiane chiuse che danno sulla strada, dentro ai reticoli dei cortili interni, nei bagni turchi, dietro il velo. Ha bisogno, per trovare un senso alla sua sofferenza e lenire il dolore provocato dalla consapevolezza che non l'abbandona mai dell'esistenza di schiere di donne imprigionate, di portare alla superficie della parola scritta quel non detto, le emozioni, la sofferenza, il rimosso della storia. Questo viaggio nella non - visibilità delle donne incontra alla fine la stessa immagine del viaggio nella storia, quella della donna/Algeria.

C'è una questione centrale che attraversa la complessità di questi percorsi che si intrecciano: la mancanza di visibilità pubblica delle parole delle donne e la lingua per dirle, ossia la questione della lingua del colonizzatore. Ma anche questa è una questione a più strati, perché riguarda sì la lingua che Assia ha imparato a scuola, la lingua che le ha permesso l'uscita dal silenzio, quindi il francese. E riguarda anche la lingua delle scuole coraniche, l'arabo classico, lingua non originaria e non accessibile a tutti, e le parlate dialettali arabe delle città e i dialetti berberi delle montagne, la lingua delle sue antenate.



Eugène Delacroix, Donne d'Algeri nei loro appartamenti

Sull'uso del francese userò tre sue frasi.

La prima: "Il mio parlare francese traveste la tua voce senza vestirla". Assia è entrata nel gruppo di donne che si parlano tra loro, è una tra le donne d'Algeri dipinte da Delacroix nei loro appartamenti (1849), ma la scena non è più vista dall'occhio che guarda dall'esterno. Assia è dentro il quadro, è una delle donne dipinte. È interna al parlare, ascolta le storie che si raccontano e si tramandano e si bisbigliano e dà a queste parole forma, le scrive, le rende visibili, udibili lontano, fuori, non più consumate nel momento e rinchiuse dallo spazio femminile. Questa trasformazione delle parole solo dette si compie attraverso una specie di doppio salto mortale: dall'orale allo scritto, dal dialetto arabo o berbero al francese. La voce sotto rimane nuda, ma grazie a questo travestimento linguistico può osare di aggirarsi allo scoperto.

"Tuttavia l'unica possibile perché l'unica di cui si ha la padronanza e che permette la distanza". L'accesso al sapere, alla scrittura è avvenuto grazie al sistema scolastico importato dalla Francia, che ha permesso un accesso generalizzato all'istruzione, aperto alle donne. La lingua del colonizzatore si è così offerta come imprevisto tramite alla parola accumulatasi nell'ombra dei secoli, parola così afasica rispetto alla possibilità di esprimersi pubblicamente che è percepita come pelle, carne viva che dalla luce improvvisa e cruda teme di essere ferita, perché deve ancora imparare a controllare le emozioni, i pensieri, le pulsioni che, nel prender forma, si distaccano dal groviglio - insieme soffocante e protettivo - di quei mucchi di donne dentro la stanza. E ciò può fare molta paura ed essere anche molto doloroso, quanto una repentina presa di coscienza. Che tuttavia per avvenire ha bisogno proprio di questa distanza che solo la lingua fredda dell'altro può permettere.

"Parole torce che illuminano le mie complici e che da loro - definitivamente - mi separano". Ogni crescita è una separazione, ogni presa di coscienza è, per chi la fa, un allontanamento da un prima che, per quanto fonte di sofferenza, rappresenta comunque il già noto rispetto a un salto nel buio. Come il separarsi dal corpo della madre per crescere, come l'individuarsi nel crescere, che ci rende già nel suo farsi irreparabilmente staccate, simili ma già altre. Questo è il prezzo che la narratrice sa di dover pagare e che non rifiuta di pagare.

Ma anche l'arabo, l'arabo classico del Corano è rimasto per i più, e tanto più per le donne, una lingua lontana, estranea anche se veicolo di tutte le regole che governano la vita quotidiana e le relazioni tra uomo e donna. Anche se secoli di continuità hanno fatto scordare pressoché a tutti che gli arabi un tempo furono gli invasori. Ma non tra i nomadi del deserto o nei villaggi di montagna dell'Aures o della Cabilia, non tra le donne du Mont Chenoua. Là è ancora possibile sentire la lingua delle antenate, là riaffiora la storia - mantenuta nella memoria per discendenza femminile - di ciò che alle origini era la cultura dell'Algeria, con le sue regine, come la leggendaria Tin Hinan (Antinea) e l'antico suo alfabeto, il tifinagh, di cui si era persa ogni traccia ma che è tornato alla luce in tempi recenti.


Per concludere, voglio accennare a due altri motivi ricorrenti in tutta la scrittura di Assia Djebar, quasi due cifre indispensabili per capire e illuminare il senso più profondo della sua poetica.

Il primo si può condensare in un'immagine: Assia bambina condotta per mano dal padre al suo primo giorno di scuola francese. Assia continuerà ad ogni occasione a dichiarare la sua gratitudine e il suo amore per il padre che le ha permesso, con quella decisione, di diventare quello che lei oggi è, di non restare imprigionata in un appartamento. Ed è lei, figlia amata dal padre, che rinarra la sua storia nel rapporto tra Maometto e sua figlia Fatma, in "Quella che dice no a Medina", uno dei racconti centrali di Lontano da Medina, che ha per soggetto il mancato riconoscimento della volontà dello stesso Maometto a proposito della poligamia e del diritto alla successione tra padre e figlia. Nodo chiave della posizione di Assia Djebar all'interno della sua professione di fede islamica e contemporaneamente angosciato lamento sull'impossibilità dell'amore tra padri e figlie, uomini e donne perdurando le interpretazioni restrittive e patriarcali fatte in nome del Corano.

Il secondo è condensato in due parole arabe di cui Assia svela il significato. Sono le parole che indicano all'interno della famiglia rispettivamente la con-moglie e il marito: derra, letteralmente "la mia ferita", è il termine con cui una moglie indica l'altra o le altre mogli con cui è costretta a convivere, dividendo il marito, che diventa per tutte édou, cioè "il nemico". Due termini che da soli indicano il tipo di relazione perversa tra donne e tra donne e uomini che quella cultura patriarcale ha generato tra le sue devote e i suoi devoti seguaci, e che Assia Djebar non rifiuta, ma chiede con orgoglio e determinazione che venga sottoposta a un esame di coscienza, insieme storico e morale.


Intervento tenuto a Bologna nel 1999

 

 

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La Scrittura femminile nel Magreb: l'opera di Assia Djebar,

€ 2

può essere richiesto a universitadonne@gmail.com

 

 

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