Perché nessuno mi ha preparato?
di Lucia Rava


 

Riporto di seguito alcuni frammenti provenienti da articoli apparsi su riviste femminili. Frammenti che ho diligentemente trascritto sull’apposito quaderno da me dedicato alla maternità:

- La questione è riuscire a mostrare anche “l’orrore della maternità”. Trovo la maternità una prova estremamente difficile, stimolante, dura. E dico poco, a paragone della vera esperienza.

- Quando è nata mia figlia ho avuto momenti difficili. E adesso come faccio ad essere quello che sono sempre stata? Da questo momento in poi non sarò più sola, lei è per sempre. In quel senso di inadeguatezza, fatica e isolamento ho rivisto mia madre con me e mio fratello. Le pressioni sociali e familiari a cui è stata sottoposta. L’ho sentita vicina e la sua presenza mi ha tenuto compagnia, dato un po’ di coraggio. E alla fine, come in un sogno, mi sono riappropriata dei pezzi che mi son mancati di lei.

- Per quanto mi riguarda, ogni donna che abbia mai detto che la maternità è la cosa più bella del mondo è stata soltanto una gran bugiarda. Quell’intero giorno della sua nascita, e francamente tutti i giorni successivi per diversi mesi, sono stata arrabbiata, ancora e ancora, mentre continuavo a chiedermi la stessa cosa. Perché nessuno mi ha detto che le cose andavano in questo modo? Perché? Eppure, non credo di essere l’unica donna al mondo secondo cui alcuni aspetti della maternità non sono quello che si dice che siano. E penso che la realtà sia semplicemente una: poche donne vogliono ammettere la verità, perché la sola cosa che desideriamo è essere considerate madri perfette.  

Ed io durante i cinque mesi che mi separano dalla nascita di mio figlio oltre a cercarmi e spesso a trovarmi nelle parole di altre che cosa sono riuscita a scrivere della mia esperienza? Poche righe. Che sia ancora troppo dentro per poterne scrivere? Ma mi domando, ne sarò mai sufficientemente fuori per poterlo fare?

Alle madri si chiede l’impossibile. Questa frase mi risuona nella testa mentre accudisco mio figlio. Come una goccia cade dalla mia mente mentre lo nutro, lo consolo, lo cambio, lo bacio e anche quando finalmente si addormenta e penso, non me ne vergogno, quante cose potrei fare tutte per me se per un giorno intero, uno solo, non facesse altro che dormire. Ripeto ognuno di questi gesti per un numero di volte troppo elevato per essere contenuto nello spazio di un’unica giornata. Il condensato di queste attività mi sovrasta e mi affanna lasciandomi qualche breve istante di lucidità per soffermarmi sulle sue richieste e allo stesso tempo sul mio desiderio d’evasione. La riflessione sui nostri reciproci bisogni dura il tempo brevissimo che mi separa dal ricominciare tutto daccapo e nella testa è sempre la mia voce a dirmi che alle madri si chiede l’impossibile.

Si parla sempre più spesso di depressione post-partum. Si organizzano convegni dedicati agli aspetti psicopatologici della maternità, dove viene riferito che l’esperienza per molte donne può essere spiazzante, e che non è affatto infrequente l’iniziale non accettazione del neonato, o in seguito, l’avere sentimenti contraddittori nei confronti dei figli.

Se non la depressione, un profondissimo smarrimento a me è sembrato un passaggio inevitabile. Improvvisamente ciò che era pieno è desolatamente vuoto. Ciò che era rigoglioso è appassito. Un po’ come se il corpo nella sua interezza rispondesse a questo violento svuotamento che è il parto avvizzendosi. Avviene con la fine della endogestazione durante la quale all’espansione della carne sembrava corrispondere una contrazione del mondo. La sensazione che ciò che davvero contava, quasi tutto, stava già avvenendo dentro di te perlopiù a tua insaputa mentre di notte dormivi sonni che non avevi mai dormito prima, carichi di sogni vivi, sognati in due.

Nel mio diario il 13.09.05, esattamente tre mesi prima della nascita di Sebastiano, scrivevo: Ho tappato il naso tenendolo stretto con il pollice e l’indice, chiudendo gli occhi fino a sentire che le ciglia si attorcigliavano fra loro. Poi l’ho fatto. Mi sono tuffata. Il tuffo non è nei miei gesti. Di solito entro nell’acqua circospetta e timorosa, ma questa volta lo feci costringendomi a non pensare. Riuscii a sgomberare la mente da dubbi e paure lasciando avanzare dentro di me il desiderio del corpo di farsi inghiottire dall’acqua per raccogliere sul fondo ciò che avevo dato per perso. Dopo circa sei mesi la mia pancia è rotonda. Scosse lievi provengono dal profondo. In qualche occasione ho guardato in un monitor l’immagine di minuscoli arti impegnati in movimenti acquatici, organi in via di formazione, occhi e naso già distinguibili, ed il suo cuore pulsare, battere come il mio, dentro di me. Eppure ancora stento a crederci.

E poi, all’improvviso non puoi che crederci. E’ il suo pianto a convincerti. Passi il tempo a domandarti se sta piangendo perché ha fame, perché è sporco, o perché ha sonno. Procedi per tentativi escludendo una dopo l’altra le possibili cause, per poi capire che piange solo per piangere. Il suo è il pianto più disperato che ti sia mai capitato di ascoltare; violento al punto che in un secondo ti restituisce alla tua stessa disperazione, quella che certamente avevi già avvertito prima ma meno quieta, direi duplicata, stereofonica. Hai impiegato tutta la vita a contenere le tue reazioni emotive ed ecco che quest’essere solo vagamente umano ti trascina al punto di partenza. Ecco madre e figlio ancora insieme, sospesi al grado zero della disperazione.

Da quel momento, anche quando la disperazione di entrambi aveva ormai assunto toni meno accesi, mi sono continuamente chiesta cosa mi abbia spinto a mettere al mondo un figlio. L’ho fatto ininterrottamente durante questi mesi che mi sono sembrati i più lunghi della mia vita, senza poter mai trovare una risposta. Io che l’avevo sempre escluso, o forse soltanto rimandato, mi ritrovo ad essere madre senza la convinzione che mi parrebbe necessaria.

Ed ancora una volta le parole di altri mi soccorrono: La spinta sessuale a riprodursi e a colmare il futuro è una spinta contro la corrente del tempo che scorre ininterrottamente verso il passato. L’informazione genetica che assicura la riproduzione lavora contro la dissipazione. (John Berger)

Se fosse possibile fermarsi qui, al puro dato biologico, senza caricare di simboli e significati la scelta di maternità che così descritta assomiglierebbe più che altro ad un metaforico, vigoroso salto nel futuro, non potrebbe essere tutto più facile?

Invece mi chiedo e lo chiedo anche a voi, di quante cose, tutte insieme, parliamo quando parliamo di maternità? Non è che nella mistica e nella retorica del voler essere a tutti i costi una brava madre ci sguazziamo un po’ tutte non soltanto quando scegliamo di esserlo, ma persino quando lo escludiamo?

Sentite a questo proposito cosa scrive Concita De Gregorio su D la Repubblica delle Donne: Il segreto delle madri, anche quelle che non sanno o non vogliono esserlo: la capacità misteriosa di diventare un posto che accoglie tutto quello che succede nel cammino, tutto quello che viene e che c’è. La capacità di tenere insieme quel che insieme non sta. Da ricordare daccapo, ogni volta, da dove passa la vita e perché.

Ancora una volta mi rammarico nel dover constatare che almeno dentro di me di quel meraviglioso segreto proprio non c’è traccia.

 

questo articolo è apparso nell'inserto di Liberazione del 17 settembre 2006