Una schedatura insomma delle donne che vogliono interrompere la gravidanza, quando già l’art 2 della legge 194 prevede che nei consultori esista un servizio d’aiuto e consulenza per le donne il cui desiderio di portare a termine una gravidanza si scontra con difficoltà oggettive e soggettive. Per quanto la legge subordini alla certificazione medica e alla successiva attesa di sette giorni il diritto della donna di essere assistita nell’interruzione volontaria di gravidanza, l’assenza di un percorso preordinato e la possibilità di rivolgersi a un medico di propria fiducia (art 4) ha garantito alle donne un uso liberale della legge, l’assistenza gratuita e nello stesso tempo, laddove lo desiderassero, l’opportunità di spazi di riflessione ulteriore. Falliti tutti gli attacchi frontali alla legge 194, questa pretesa, giunta a ridosso della richiesta di far entrare nei consultori quali consulenti i militanti del movimento per la vita, è l’ultima tappa di una strategia di accerchiamento che ha accreditato consultori privati, per lo più cattolici, ha sostituito i medici dei consultori con medici ospedalieri (attenti piuttosto alla malattia che disposti a una relazione d’ascolto su tematiche sessuali e riproduttive), ha usato il turn over lavorativo per assunzioni a breve termine o contratti a progetto, minando alla base la continuità di cura e una progettualità di medio o lungo periodo. Favorire lo svuotamento se non il degrado di luoghi e istituzioni per poi chiederne la chiusura o la revisione è una strategia consolidata della destra, che nei consultori ha trovato come unici ostacoli la passione di chi vi lavora e alcuni progetti innovativi legati ai cambiamenti del contesto sociale: per esempio la presenza nelle scuole, l’introduzione della mediazione linguistico-culturale per la messa a punto di un percorso materno-infantile per le donne straniere. Non nego dunque che nei consultori come nell’attuazione della 194 ci siano mancanze o insufficienze; mi ribello all’idea che ad esse si risponda con un’ideologia nemica della libertà. Nell’ormai lontano 1981, in un introvabile libricino Laura Conti scriveva: “le dicono, sei un’assassina; la tormentano per farsi, del suo tormento, uno scudo”. In quella fragile congiuntura in cui si sente cambiare il proprio corpo ma non ci si sente pronte ad accompagnare la trasformazione che fa nascere un’altra vita, pretende di intervenire chi sostituisce al riconoscimento che si nasce solo se una donna lo vuole, l’intimidazione nei confronti di chi vuole abortire. Chiamano
cultura di morte la libertà di decidere del proprio corpo, di scegliere
quale vita. Sembra riguardare solo le donne, ma è la stessa libertà di
scegliere quali preferenze sessuali, quali convivenze, quali trattamenti
medici, quali cure per la malattia, quale morte se ormai inevitabile.
questo articolo è apparso su Liberazione del 29 novembre 2005
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