Caterina Botti, Prospettive femministe

di Maddalena Gasparini

 

Il bel libro di Caterina Botti, Prospettive Femministe, affronta gli aspetti morali delle scelte che per il fatto stesso di esistere (nascere, vivere, mettere al mondo, morire) tocca affrontare (il sottotitolo non a caso è Morale, bioetica e vita quotidiana). Messa felicemente da parte l’insistenza di chi ancora si appella a una naturalità quotidianamente smentita,  l’autrice affronta gli interrogativi morali posti dalle procedure mediche che hanno modificato la nascita e la riproduzione (si pensi alla possibilità di rianimare neonati estremamente prematuri,  alle gravidanze in donne “cerebralmente” morte, alla sottrazione della riproduzione alla sessualità) e la fine della vita (le terapie di sostegno vitale, gli esiti indesiderati della rianimazione, il prolungarsi del processo del morire) avendo in mente la felicità –o almeno la minor sofferenza possibile- delle persone coinvolte.

E' dalla seconda metà del ‘900 che la medicina non è più solo l'arte di guarire, curare, ridurre la sofferenza di chi è malata, tanto che negli anni '90  la medicina è stata costretta a interrogarsi sui propri scopi (Gli scopi della medicina,   Hasting Center) perché non è più chiamata solo a rispondere a bisogni (per es non patire il dolore, per lo meno troppo dolore) ma anche a dar corso ai desideri (per es avere/non avere un figlio).

Dentro questa cornice la relazione personale fra medico e paziente, dopo secoli di paternalismo,  tende a essere rappresentata dalla tradizione liberal come un contratto in cui può o deve legittimamente prevalere la richiesta del "cliente". Ma possiamo e vogliamo uscire dalla costruzione avversariale che in caso di conflitto può risolversi solo con la prevalenza dell’uno sull’altro?
Per rispondere a questa domanda CB nella prima parte del libro percorre a grandi linee i passaggi che hanno portato alla nascita di “un genuino pensiero filosofico femminista” a partire dalla denuncia delle rappresentazioni delle donne nella tradizione filosofica occidentale e dalla ribellione ad essa attraverso pratiche politiche che hanno permesso elaborazioni complesse e non sempre concordi. E’ stata la pratica femminista che ha visto fianco a fianco autocoscienza e rivendicazione pubblica, a riconoscere quanta politica  si celasse in quegli eventi privati, personali che oggi sono nell’osservatorio della bioetica cui molto femminismo ha guardato con sospetto (Bioetica si, no, perché era il titolo di un convegno del 1992). Sul terreno della lotta alla disuguaglianza ha messo radici il riconoscimento della differenza, una differenza tutta da scoprire per quanto era stata censurata o opportunisticamente esaltata, ma anche da costruire liberandola dalla pervasività del patriarcato.

Del pensiero dunque che di quella pratica è figlio CB trae ispirazione per uscire dalle tradizionali contrapposizioni (medico/paziente, donna/embrione, pro-life/pro-choice etc) e mettere al centro dell’analisi “i possibili modi di concepire la nozione di soggetto morale”: da una “soggettività astratta, identica e seriale … a una che parte da una concezione relazionale dei soggetti … e che tiene conto che i soggetti non sono completamente trasparenti” nemmeno a se stessi. L’analisi morale di CB interroga insieme l’atto (l’aborto, l’eutanasia, la rianimazione dei grandi prematuri etc) e l’agente, la sua soggettività.

Spostare l’attenzione dalla procedura alla soggettività è il passo necessario per riconoscere le differenze (“una questione di giustizia”) e dar valore a tutte quelle esperienze tradizionalmente considerate estranee alla sfera morale e storicamente consegnate alle donne: gli affetti, la cura, il corpo, la natura. Ci spostiamo così dall’etica del dovere o dei princìpi alla concezione “che pone al centro la capacità di essere solleciti nei confronti dei bisogni degli altri; …l’etica della cura è una moralità dell’agente più che dell’azione”.

Il paradigma della cura, nato dallo storico lavoro di Carol Gilligan, non manca tuttavia di ambiguità, sia perché una sua rivalutazione acritica confermerebbe le donne nel ruolo che le ha relegate nella sfera privata, sia perché può celare la dipendenza (reciproca) che si crea fra i soggetti.  Prendiamo un medico (e qui anche a me, come a CB, viene di usare il maschile! mentre del/della paziente si riconosce il genere) quanto e quando è in grado di rinunciare al (supposto) potere di cura? Nasce da questa difficoltà l’accanimento terapeutico (ossimoro dei più bizzarri), l’incapacità di molti di fermarsi e accogliere il limite ultimo – la morte- o ancor più di accompagnare il rifiuto delle cure, soprattutto se di sostegno alla vita. Nel trattare le vicende del fine vita (testamento biologico, sospensione delle cure, eutanasia) CB pone la domanda cruciale: perché un medico si dovrebbe opporre a una richiesta di limite alle cure o di eutanasia?

La consapevolezza del limite che la cura incontra non tanto nella ricerca della guarigione (come penserebbe un medico) quanto nella “difficoltà di cogliere i bisogni degli altri senza presumerli o senza far valere i propri pregiudizi” può aprire a un “processo sentimentale di secondo livello”, cioè alla capacità di analizzare la propria reazione emotiva -negativa per es all’eutanasia, per il radicamento in noi del divieto di uccidere-  e superarla per approdare al sentimento, all’empatia (per esempio verso il dolore dell’altra e accogliere la sua domanda di por fine alla sua vita). Possiamo “sospendere il giudizio sugli altri senza sospenderne la cura” e con l’aiuto dell’immaginazione farne “una trasformazione di sé verso gli altri”.


Con questo bagaglio argomentativo, e il riconoscimento del contributo femminista alla bioetica, CB nella seconda parte del libro affronta specifiche questioni: l’aborto, la procreazione medicalmente assistita, i neonati estremamente prematuri, il fine vita. E qui l’attenzione va da un lato alla sofferenza che può essere risparmiata, dall’altro alla necessità di aver fiducia nella responsabilità di chi chiede assistenza per dar corso alle proprie scelte.

L’anno scorso l’OMS ha pubblicato a 10 anni di distanza  la seconda edizione di una guida dedicata a migliorare l’assistenza all’aborto volontario (Safe abortion: technical and policy guidance for health systems, WHO, 2012) documentando quante vittime faccia ogni anno nel mondo l’aborto illegale, e dunque unsafe, insicuro perché clandestino (ogni anno 47.000 morti e 5 milioni di danni permanenti alla salute, soprattutto riproduttiva). C’è insomma un'evidenza epidemiologica che in assenza dell'assistenza medica le stesse pratiche portano con sè un carico di sofferenza evitabile (dall'aborto clandestino al suicidio non assistito). Per questo l’obiezione di coscienza, in adesione a un proprio principio o valore, finisce con l’essere un rifiuto delle cure, lesivo di un diritto fondamentale.

Ma non solo per questo CB difende la libertà di accedere all’aborto o di sottrarsi a cure di sostegno vitale. Le narrazioni prevalenti, progressiste non meno che conservatrici, fanno dell’aborto un male morale, un dramma umano in cui ci sono solo vittime, vuoi da salvare (l’embrione), vuoi da proteggere (la donna) scegliendo il male minore (l’aborto legale). Per una “possibile valutazione morale positiva” dell’IVG è necessario andar oltre l’individuo e guardare alle relazioni “ai vincoli linguistici, culturali, storici o psichici” che contribuiscono alle preferenze e alle scelte. Si pensi anche al ruolo dell’immaginazione, per es nel differente valore che una donna attribuisce all’embrione a seconda che voglia liberarsene o tutelarlo fino alla nascita di una figlia o di un figlio. Nella scelta che compirà emerge la responsabilità, vorrei dire prima della libertà: se qui e ora diventare madre, è una scelta che implica, anche inconsapevolmente, l’assunzione di responsabilità (sull’ineliminabilità delle gravidanze involontarie non ci sono molte parole da spendere; quando non un’esperienza vissuta è un timore che tutte abbiamo provato).

La sfiducia nella capacità delle donne di essere responsabili si è spinta fino a mettere in discussione le decisioni di fine vita  prese dalle donne, anche nei paesi, come gli USA, dove sono vincolanti. Negli anni 80-90 alcune indagini documentavano una netta differenza di rispetto delle direttive anticipate da parte dei medici, che per le donne spesso preferivano seguire le indicazioni della famiglia e raramente, in caso di conflitto,  le Corti di Giustizia ricostruivano le preferenze delle donne. “Lo sfondo di discriminazione sessuale può condizionare la facilità delle donne ad avanzare le richieste di eutanasia o suicidio assistito” aggiungeva Susan Wolf.  Insomma ragioni simili (l’eccesso di emotività, la propensione a essere soggetto piuttosto che oggetto di cura) sono state utilizzate per respingere alcune richieste (per es quelle del testamento biologico) o sostenere che altre (l’eutanasia o il suicidio assistito) vengano accolte troppo facilmente. Ma le indagini svolte nel primo decennio del 2000 nei paesi dove sono legali eutanasia e suicidio assistito hanno smentito l’ipotetica influenza del genere sulle richieste dell’una o dell’altro.

Passare dal confronto fra diritti o princìpi alla comprensione dei bisogni e all’ascolto caso per caso, sottraendosi a scorciatoie interpretative, è il modo migliore per dar valore e fiducia alla persona e rispettarne la richiesta, avendo in mente la sua felicità o benessere o almeno un minor sofferenza.

 

Caterina Botti, Prospettive Femministe
Espress Ed, Torino, 2012, pag.216, 18 euro


19 maggio 2013

 

 

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