Madre meccanica, lingua straniera

La vicenda umana e letteraria di Dolores Prato

di Adriana Perrotta Rabissi
 

Anche dentro di noi, lingue diverse e nemiche si combattono per occupare il territorio, la terra dell’io” (Laura Kreyder)1

La voglia di scrivere verrà più tardi, quando si sarà rotto il filo d’argento dell’infanzia (Agota Kristof)2


 

Infanzia, lingua materna e lingue nemiche sono temi che si incrociano nel romanzo autobiografico di Dolores Prato Giù la piazza non c’è nessuno. Fortuna critica a parte, si tratta di un’opera singolare, di sicuro per l'uso particolare della lingua, marcata da scelte lessicali anomale e da una sovrabbondanza di parole, che poi risultano essenziali e necessarie, ma anche per la rappresentazione di un’infanzia inquietante, segnata dal marchio dell’abbandono. Prato nasce da una relazione extramatrimoniale della madre, il che determinò per lei una esclusione dalla famiglia di origine, che si risolse in una dimensione interiore di inappartenenza rispetto a luoghi, persone, oggetti, eventi.

L’autrice dice di sé nell’appendice al romanzo: “E io che fui? Una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa[…]una bastarda, dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale dico io, non solo per il concepimento, per la nascita in un nascondiglio segreto[…]non solo per la mia dimora, sia pure breve al brefotrofio, ma per tante altre cose. Intanto preparata da un illuminista quale era mio zio, per formarmi a modo suo, fui invece soffocata dall’educazione cattolica. Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestato con un poderoso ramo israelita, io che sono?[…]Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntava dal plurimillenario dolore ebraico. Io sono una commistione di ebraismo e cristianesimo[…]sono una bastarda anche religiosamente: cresimata ma non battezzata”.3

L’infanzia tuttavia, sappiamo, è il tempo in cui si formano le categorie di interpretazione e di attribuzione di senso al mondo e a se stessi, categorie solitamente mediate dalla lingua materna.

Nel romanzo Prato va alla ricerca della lingua materna che non è quella della madre reale, che l’ha abbandonata alla nascita, ma il dialetto di Treia, il paese delle Marche in cui risiedono gli zii che l’hanno accolta e allevata fino all’età scolare, dialetto parlato dunque dai piccoli amici e amiche, dalle domestiche che l’hanno coccolata, tra cui quella che Dolores chiama “Scolastica delle scantafavole”). Lingua materna in seconda battuta e tuttavia sorgiva di parole-casa, parole-mondo, nelle quali avvolgersi come in un manto caldo e protettivo.

Quando entra in collegio infine Dolores è obbligata a parlare l’italiano scolastico, la lingua conforme al modello adottato (con miopia) dal nuovo Stato, una lingua imbalsamata rispetto all’espressività dei dialetti e del parlare comune e vivente nei libri piuttosto che nelle menti delle persone. La ricerca di Prato, tesa a nominare luoghi, persone, odori e sapori degli anni della prima infanzia, deve fare i conti con le tre lingue che in qualche modo combattono dentro di lei: il dialetto, la lingua della ‘cultura’ e la lingua parlata in casa degli zii, che differisce alquanto da quella parlata dagli altri abitanti di Treia, anche per questioni di classe sociale.

Ecco un esempio di come Prato fa interagire tra loro le parole appartenenti alle diverse lingue: “Per me poi sulla parlata c’era un altro confine, un vallato profondo, ed era la nostra casa dove si parlava così bene come in nessun’altra casa[…] Solo Eugenia dentro casa nostra diceva prescia, noi dicevamo fretta, […]Noi dicevamo quercia, poveri e contadini dicevano cerqua; per me era più facile dire quercia e non capivo quella loro fatica inutile”.

La scrittura si connota dunque come azione di recupero della propria soggettività frammentata, un tentativo di risanamento dalle fratture interiori che, come osserva Nelvia di Monte, “coincidono con fratture nel linguaggio, causate da un brusco passaggio da una lingua all’altra”.4

In questo modo evento linguistico e abbandono da parte della madre diventano l'asse intorno al quale ruota l'intero romanzo. Basta qui rammentare le frasi di apertura del romanzo:”Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: “Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?” Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori”.

Qualche pagina dopo questa è la riflessione della scrittrice sul suo rapporto con la madre: “Madre è quella che smette di leggere per rispondere ai perché, madre è unicità, sicurezza e appoggio fisiologico[…]Con lei dovevo restare. Invece un sollecito trasferimento mi portò tra i neonati ripudiati, un biberon diventò il mio elemento materno[…]Quando la madre meccanica mi riprese, dissi 'mamma' a lei. Però mi aveva ripresa non per tenermi, ma per ripulirmi e portarmi a Treja dove, era convenuto, mi avrebbe appiccicata agli zii[…]Madre è realtà fisiologica e affettiva; io ebbi lo stridio di una tastiera di elementi materni, tutti discordi tra loro. La parola[mamma]trionfò sui libri di lettura della scuola, uno smammolato termine letterario. Meglio le 'guerre puniche' e l’inno di Garibaldi”.

Alla madre meccanica, pura e semplice 'facitrice' come dice Prato, si aggiunsero la balia e la zia. Tre persone diverse da dover nominare con la parola mamma. L'esito, nella soggettività in formazione della piccola Dolores, fu quello 'stridio di elementi materni', che la resero straniera all'intero mondo nominato nella confusione di tre lingue diverse; infatti Prato definisce con le seguenti parole la distanza tra dialetto e lingua degli zii: “Per la pronunzia, per la scelta dei vocaboli, eravamo quello che è la Repubblica di San Marino: uno stato a parte”. Il romanzo proverà a mettere ordine in questo caos.

Per 741 pagine Dolores, a 82 anni, racconta, descrive, ricorda ( e lei stessa riflette ironicamente sulla arbitrarietà della propria ricostruzione dei ricordi) fatti, episodi, sensazioni, personaggi che hanno popolato il suo mondo di bambina. Con un ritmo e un respiro più poetici che narrativi per quel procedere per illuminazioni improvvise che si accumulano ossessivamente alla ricerca di un senso. Una quantità esorbitante di parole-immagini che indusse una lettrice attenta e sensibile come Natalia Ginzburg a ridurre il romanzo ad un terzo del dattiloscritto, apportandovi correzioni lessicali e stilistiche, quando ne curò l’edizione per Einaudi nel 1980. Eppure Dolores era stata un’insegnante di liceo, fino a quando fu allontanata dalla scuola causa delle leggi razziali, e poi giornalista delle pagine culturali di periodici romani, studiosa di Dante e Leopardi, tutt’altro che illetterata. All’uscita del libro così ridotto, Prato provò una forte sofferenza che la spinse a compilare un nuovo dattiloscritto che dichiarò fermamente essere l’unico autorizzato. Prato conobbe così un'ulteriore condizione di straniera perché si verificò anche per lei quello che è sovente capitato alle scrittrici italiane, le cui scelte stilistiche e tematiche, consapevolmente al di fuori delle categorie interne alle convenzioni letterarie, furono scambiate per inadeguatezza.

Dentro quelle convenzioni non è facilmente accettabile che sia una donna a intraprendere percorsi di ricostruzione della propria soggettività, soprattutto se lo fa attraversando il linguaggio, perché nello stereotipo del sistema letterario, almeno fino alla prima metà del Novecento (ma anche oltre), le donne scrittrici sono confinate nella sfera espressiva del mondo dei sentimenti e fuori del territorio delle invenzioni e novità stilistiche e formali.


Note

1 Laura Kreyder, La lingua nemica, in Laura Kreyder e altre (a cura di) Lapis. Sezione aurea di una rivista, Roma, Manifesto libri, 1998, p. 42.

2 Agota Kristof, L’analfabeta. Racconto autobiografico, Bellinzona, 2005, p. 16

3 Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Milano, Mondadori, 2001, p. 741

4 Nelvia Di Monte, Dolores Prato. Una vita camuffata dalle parole, in “Lapis”, n° 19, settembre 1993, p. 13
 

Dolores Prato,
Giù la piazza non c’è nessuno
,
Milano, Mondadori, 2001, pp.759

 

questo articolo è apparso sul numero 12 de "la Mosca" di Milano