Dibattito sulle "madri snaturate"
dalle e-mail circolate in questi giorni

"Madri snaturate"?
Lea Melandri

E' fin troppo facile accanirsi contro la madre che uccide un figlio, finché si considera la donna spinta da un "naturale" istinto materno all'amorosa cura dell'essere che ha messo al mondo. Più difficile interrogarsi di quali cambiamenti, conflitti, sofferenze e sentimenti ambivalenti è fatta la maternità, vissuta spesso in solitudine anche nell'ambito famigliare.
Sulla madre del piccolo Loris ha imperversato -come sempre in questo casi- la stampa, e ora, ...nel carcere dove è rinchiusa, si aggiungono le grida insultanti degli altri carcerati. Come mai non succede lo stesso quando è un padre a uccidere la moglie e il figlio? Perché su questa doppia violenza si sorvola, presupponendo che in questo caso la "natura" spinga l'uomo a liberarsi delle persone che gli sono legate biologicamente e sentimentalmente? La definizione di ciò che è "naturale" appartiene in modo evidente alla cultura del sesso dominante, ma affrontarla con le consapevolezze che abbiamo oggi incontra purtroppo ancora molte resistenze.

Eppure non mancano studi, ricerche, libri che analizzano l'infanticidio, e le differenze che passano tra uomini e donne anche in questo caso.

Nel Prefazione alla ristampa del libro di Glauco Carloni e Daniela Nobili, "La madre cattiva. Fenomenologia, antropologia e clinica del figlicidio" (Guaraldi 2004), si legge:

"Ci sembrò allora importante contribuire con uno scritto dai toni anche un poco provocatori e polemici, a scuotere queste comode e fallaci sicurezze dimostrando che i maggiori pericoli per i bambini, come aveva del resto già sostenuto nel 1932 Ferenczi (...) vengono dall'interno della casa, di quel groviglio incandescente di emozioni e conflitti, tanto intensi quanto spesso mal controllati, da cui è costituito il rapporto tra madri e figli. E poiché soprattutto la figura della madre era alonata e protetta da uno specifico tabù che la voleva totalmente buona ed amorevole, disposta al sacrificio di sé stessa per i propri piccoli (...) mentre venivano trascurati i segni che potevano dimostrare l'esistenza, accanto all'amore, di un'aggressività altrettanto intensa, decidemmo di appuntare la nostra indagine soprattutto sui comportamenti materni (...) Si voleva tentare di combattere lo stereotipo della madre 'buona' e nello stesso tempo ridurre la distanza difensiva e accusatoria nei confronti delle 'cattive' madri, contribuendo ad una conoscenza più approfondita dell'aggressività verso i propri figli, sempre ed inevitabilmente presente in un rapporto tanto più intenso e continuativo di qualsiasi altro"

 

Commento di Giancarla Dapporto

Carissime,
una piccola nota di dolore da parte mia per una donna infelicissima!

La madre consapevole del proprio sentimento ambivalente nei confronti del figlio é una donna colta, che ha messo in discussione il ruolo e sa gestire il rapporto. La ragazza di cui si parla nella cronaca invece é davvero da compiangere, la donna più sola che c'é al mondo, inconsapevole di sé e di ciò che forse ha fatto, perché vittima di un sistema famigliare e sociale feroce. Essere la causa della morte di un figlio é la disgrazia più atroce!

 

Veronica Panarello, una donna “incolta”?
Emma Baeri

Mie care, condivido la riflessione di Giancarla Dapporto, ma vorrei soffermarmi un attimo sul nesso colta/incolta che la muove. Se ci riferiamo al senso comune della cultura, certamente Veronica non ha avuto molte occasioni per coltivarla; se ci riferiamo alla “cultura” che il femminismo ha diffuso a partire dagli anni Settanta, noto un vuoto, che da un po’ di tempo mi scervello a voler colmare.

Che la maternità non sia un evento naturale l’abbiamo già detto: l’autodeterminazione è un fatto acquisito, quanto meno nella coscienza della maggior parte delle donne, e forse anche degli uomini.
Tuttavia la gravidanza resta collocata ancora nell’ordine preteso naturale dell’attesa, seppure “dolce”, arricchita da nuove culture dell’accoglienza; ma non è ancora un “luogo” civile, come dovrebbe essere un’esperienza radicale – fare il corpo di un’altra, di un altro – la prima forma di relazione tra due, con tutte le difficoltà, i piaceri, i progetti, le paure, gli acquisti e le perdite che si accompagnano a sì grande impresa, più o meno consapevolmente.
L’esperienza della donna gravida ha un fortissimo sonoro: l’attrito tra l’individua che era e la sua sconvolgente dividualità. Cosa succede se questa esperienza attraversa il corpo di un’adolescente? Solo di un’adolescente, o di tutte? Il femminismo ha trascurato questo aspetto della sessualità femminile, mettendo a fuoco – opportunamente in quegli anni – il nesso maternità/aborto, urgentissimo.
La gravidanza è un terremoto, la cui sismicità si esprime ancora in modo sotterraneo, e nell’attuale disattenzione del nostro dibattito politico rispetto al suo significato civile, una riflessione che vorrei condividere, convinta che darebbe senso a quel travaglio “nell’interesse di tutti”, per dirla con Olympe de Gouges.
Se una donna sapesse che quello che accade nella sua pancia non è attesa e basta, non è natura afasica, ma lavoro civile, forse la perdita temporanea della sua individualità – conquista storica indiscutibile e bene prezioso – non produrrebbe lacerazioni profonde nella sua psiche, piuttosto godrebbe di un riconoscimento fatto non solo di tutela (quando c’è) per quella “onorata infermità”: si sentirebbe una cittadina intera. Non solo: forse imparerebbe a sottrarsi al materno patriarcale, obbligatorio, oblativo/possessivo/distruttivo di sé madre e delle creature che mette al mondo, imparerebbe a “governare la simbiosi”, a consentire un andirivieni della figlia/figlio, una “emancipazione” mobile che non tagli il legame con l’origine, che preveda, fin dal grembo materno, la libertà di andare e la possibilità di tornare, il viaggio e l’abbraccio.
Questo ho cercato di fare, poi di capire, grazie al femminismo, ai fiori e ai frutti dell’autocoscienza nel tempo personale-politico della mia piccola vita: che ne pensate?

Forse Veronica Panarello non ce l’ha fatta perché le sono mancate queste occasioni “colte”, forse per altre ragioni, e sento una grande pietà per lei. Ma sento anche che qui emerge una nostra responsabilità: forse non ce l’abbiamo fatta neanche noi, femministe storiche, a dare forma civile a tutte le espressioni della nostra sessualità. Vorrei per questo cominciare col dire ad alta voce che essere individue dividuali mette al mondo un’idea di libertà imprevista per una cittadinanza accogliente, ancora in erba, che parte da una nostra esperienza vitale ma può (vuole) diventare una cultura condivisa da tutte e tutti…Fiorirà.

 

14-12-2014

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