La libertà di
disporre di sé, in vita e in morte
di Maddalena Gasparini

Gina Pane
«Stato vegetativo permanente»: è la diagnosi che i medici hanno formulato
per Terri Schiavo, che sopravvive a lesioni cerebrali che hanno
risparmiato solo le aree che regolano la vita vegetativa. Infatti respira
spontaneamente ma non esegue alcun movimento volontario, alterna veglia e
sonno ma non è in grado di alimentarsi per bocca. Certo, le sue labbra
possono disegnare un sorriso, ma nulla ci lascia credere che esso segnali
un'emozione, una richiesta, un incontro. Il suo corpo viene mantenuto in
vita da un'assistenza intensiva e dall'alimentazione e idratazione per
sonda che, per la complessità e irreversibilità della condizione,
configurano un vero e proprio trattamento.
Ma che opinione aveva Terri di una vita così?
Sappiamo che Terri aveva espressamente dichiarato di non voler
sopravvivere in quelle condizioni. Proprio come Eluana Englaro, da 12 anni
in stato vegetativo permanente, per la cui "libertà di morire" si batte,
in Italia, il padre.
Fino a qualche decennio fa, la medicina non conosceva casi del genere. E'
stato lo sviluppo delle tecnologie biomediche che, insieme a straordinarie
opportunità, ci hanno consegnato la responsabilità di operare scelte
impreviste. Abbiamo parlato di vicinanza alla morte ma possiamo estendere
a tutto il tempo dell'esistenza lo stesso interrogativo: possiamo disporre
liberamente della nostra vita, dei nostri corpi? Parrebbe semplice
rispondere che sì, chi o cosa lo impedisce?
Sempre più spesso a dar corso alla libertà di disporre del proprio corpo è
chiamata la medicina, gli uomini e le donne che vi lavorano, applicando
nella pratica quotidiana i principi che la guidano secondo
un'interpretazione inevitabilmente soggettiva. Il legame fra corpo,
libertà e medicina fu posta pubblicamente dalle donne, quando negli anni
'70 rivendicarono la libertà di controllare la vita riproduttiva con i
contraccettivi e l'interruzione volontaria di gravidanza nel rispetto del
diritto alla salute, costituzionalmente garantito. In tempi di critica al
patriarcato anche il paternalismo medico fu messo alle strette, tanto che
non mancò la disobbedienza civile alla legge che perseguiva penalmente,
oltre alla donna, anche chi la aiutava ad abortire. Finché lo stato fu
costretto a registrare il cambiamento ormai sedimentato nella coscienza
collettiva, come la vicenda dei referendum abrogativi della legge 194 ha
confermato.
Da allora in poi sono stati piuttosto i progressi della medicina - dai
trapianti all'uso terapeutico di materiale biologico, dalle tecnologie
riproduttive alle indagini genetiche - a generare conflitti e
interrogativi cui la legge non sapeva rispondere, ma cui la magistratura è
stata spesso chiamata a dare una soluzione. Ma come possono le leggi dello
stato regolare la più intima delle libertà, quella di decidere del proprio
corpo, esteso ai frammenti che ne sono ormai separati, come i gameti
destinati alla fecondazione in vitro, e al tempo in cui non si è più
coscienti, come nello stato vegetativo, fino a oltrepassare lo stesso
limite della vita, come avviene nella disposizione o nel rifiuto di donare
gli organi dopo la morte?
La Carta dei diritti fondamentali dell'Ue si apre con la solenne
affermazione che «la dignità umana è inviolabile. Essa va rispettata e
protetta», dando rilevanza generale all'impegno di rispettare «le libertà
fondamentali riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina»,
anticipate nella Convenzione sui diritti dell'essere umano e la
biomedicina. Malgrado gli incerti confini, la dignità ha felicemente preso
il posto della sacralità della vita, riconoscendo a ogni persona la
libertà di enunciare e perseguire una propria idea di dignità, fino ad
anticiparne il senso nel caso venga persa la capacità di esprimerla. Allo
stato resterebbe il pur difficile compito di definire le regole e le
procedure perché ognuno possa dar libero e consapevole corso alle proprie
preferenze e insieme non essere oggetto di abusi.
Purtroppo le recenti vicende italiane, dalla legge che limita pesantemente
l'accesso alle tecnologie riproduttive al trattamento sanitario
obbligatorio per la donna che non voleva curare il diabete con le terapie
convenzionali, fino al caso di Eluana Englaro, ci dicono ben altro. Con il
consistente sostegno delle gerarchie ecclesiastiche, il controllo e il
sopruso esercitato per secoli sul corpo femminile trascende i generi e si
presenta come irriducibile difesa della vita: la Vita contro le vite, la
vita astratta dai legami che pure ne sono la premessa contro le vite
reali, addirittura la vita in assenza della persona, come nel caso
dell'embrione.
Troppo spesso sento parlare di valori che per scivolamenti progressivi si
staccano dall'esperienza della vita fino a schierarsi contro di essa; mi
pare allora urgente riconoscere alla libertà di disporre di sé il valore
fondante sul quale definire regole condivise.
questo articolo è apparso su
Liberazione del 24 marzo 2005
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