Subalterne e emancipate, i due volti delle sartine torinesi

di Michele Nani

 

La storia e l'immagine della Torino novecentesca sono segnate dalla grande industria, simboleggiata dalla Fiat e dal suo esteso indotto. All'ombra del Lingotto e di Mirafiori, tuttavia, si svilupparono anche forme diverse di organizzazione della produzione. La più importante di queste esperienze fu quella dell'industria dell'abbigliamento, definita già nel 1922 dai dirigenti sindacali una «fabbrica sezionata».
La sartoria torinese fu significativa per più di una ragione.
Economicamente i grandi atelier del centro cittadino fecero di Torino una vera e propria capitale della moda, seconda solo a Parigi e ad essa stabilmente connessa, anche per via di una lunga integrazione produttiva con la Francia, che risaliva all'industria tessile del Sei-Settecento. Dal punto di vista sociale, questo comparto produttivo occupava decine di migliaia di lavoratrici, che all'inizio del secolo costituivano già un quinto della forza-lavoro torinese complessiva. Infine, non va dimenticato il rilievo culturale di questa attività, che produceva i simboli del prestigio e della piccola distinzione, i segni che rendevano concrete e visibili le classificazioni e le gerarchie sociali, importanti nelle fasi di mobilità sociale e in una città ove il peso della nobiltà restò notevole fino a tutto il ventennio fascista.

Di questo mondo dimenticato ci parla Tenere le fila. Sarte, sartine e cambiamento sociale 1860-1960 un libro di storia sociale del lavoro che raccoglie i risultati della lunga e ampia ricerca di Vanessa Maher - una ricerca di etnografia storica, nella quale l'analisi di una serie di interviste dei primi anni Ottanta a sarte che si formarono durante il fascismo si intreccia allo spoglio di un vasto insieme di fonti coeve e di studi, grazie ai quali è possibile ricostruire le dinamiche più ampie e effettuare confronti con altri contesti di sartoria e con pratiche sociali affini o prossime.

L'industria torinese dell'abbigliamento ha conosciuto una vera parabola: alla grande e rapida espansione fra Otto e Novecento, proseguita fino alla metà del secolo, ha fatto seguito un lento declino, dettato dalla fine dell'apprendistato, dal calo della domanda dovuto allo sviluppo della produzione in serie, dall'ascesa di Milano a capitale della moda e della dispersione della produzione del «made in Italy» nell'industria sommersa del Mezzogiorno.
Il tramonto della sartoria non basta tuttavia a dar conto della sua scomparsa dalla memoria e dagli studi. L'autrice argomenta un'ipotesi convincente: è stata la femminilizzazione del mestiere a determinare le possibilità di espansione del settore (per via del decentramento a domicilio reso possibile dalle macchine da cucire: con conseguente taglio dei costi e dei salari dell'ordine del 50 per cento), la sua fortuna (anche per la disponibilità di apprendiste alle quali era negato l'accesso all'istruzione e per la difficoltà di organizzare vertenze) e infine la rimozione, dovuta all'invisibilità sociale di un lavoro femminile e domestico che non sembrava compatibile con le epopee del boom e del movimento operaio.

Contribuirono a questo esito anche alcuni caratteri propri del mestiere. Quello della sarta non era un lavoro dequalificato, si trattava anzi di un sapere artigianale di lento e difficile apprendimento, che rappresentava un investimento per le famiglie (il possesso del mestiere equivaleva a una dote), ma anche l'imposizione alle figlie di una identità sociale e di genere subalterna. Il ciclo di vita della sarta passava per una formazione complessa che aveva luogo negli atelier, governati da una direttrice e da una première, o prima sarta, accanto all'unico ruolo maschile, quello del sarto tagliatore di stoffe (coupeur). Si cominciava come cita, occupandosi di filo, spilli, pulizie e consegne; quindi si diveniva seduta o fancell e si passava al primo apprendistato (ad esempio come orlatrice), fondamentale perché in quella fase si doveva letteralmente «rubare il mestiere», cioè quel sapere quasi intuitivo incorporato nei gesti e nei trucchi delle sarte che non poteva trasmettersi mediante un insegnamento formale, né tanto meno verbale; molte rinunciavano, ma chi riusciva nell'opera diventava aiutante o lavorante, cioè una sarta salariata. A quel punto la ragazza poteva anche cambiare laboratorio e magari provare a mettersi in proprio, una scelta che diveniva obbligata in caso di matrimonio, poiché questo implicava il licenziamento: di lì la miriade di piccole botteghe domestiche che contornavano i grandi atelier e sostenevano una domanda più ampia rispetto a quella del lusso e della moda.

Questo itinerario fondava comportamenti ambigui: sarte e sartine godevano di una mobilità territoriale e professionale notevole, ma soprattutto attraversavano i confini fra le classi. Li eludevano concretamente, poiché le ragazze conoscevano clienti dell'alta società, si accompagnavano a studenti e comunque più facilmente a impiegati o periti che a operai. Pur subalterne, producevano alcuni dei simboli attraverso i quali l'ordine sociale si manifestava nella sfera pubblica e questo saper fare le portava a confezionare per sé i capi alla moda, sovvertendo così sia il nesso fra collocazione di classe e aspetto fisico, sia il monopolio delle signore sul gusto riconosciuto.

Le sarte si emancipavano così dalle costrizioni delle famiglie di origine e sperimentavano una certa libertà sessuale e forme di controllo sulla riproduzione che le portavano a fare meno figli della media. Questi tratti produssero gli stereotipi della «sartina» frivola e leggera e quelli della lavoratrice inaffidabile perché portata a tradire la propria classe. In realtà anche la sartoria torinese fu attraversata da frustrazioni e risentimenti, che talora sfociarono in aperto conflitto, come negli scioperi del 1883 e del 1906, contraddistinti da cortei dal sapore carnevalesco, con parodia delle clienti borghesi.

A Torino la sartoria costituiva la seconda occupazione femminile (dopo il servizio domestico), ma l'organizzazione, come per tutto il lavoro a domicilio, fu difficile. L'esperienza dell'apprendistato era comunque diffusissima e per questo negli atelier passarono molte delle donne poi attive nell'antifascismo e nella Resistenza, come la futura dirigente comunista Teresa Noce, che la ricostruì nelle prime pagine della sua autobiografia Professione rivoluzionaria.

Un vero contratto sindacale per la sartoria si ebbe solo nel 1947, ma come segnala l'esperienza del Circolo delle Caterinette, sorto qualche anno dopo in risposta al trasferimento dell'Ente Moda, la percezione del declino era ben presente, alimentata dalla scolarizzazione che sottraeva apprendiste a laboratori e botteghe, dall'orientamento della domanda verso la produzione di massa di vestiti economici e quindi dalle più frequenti rinunce al mestiere da parte delle sarte: un lavoro reso insostenibile dalla mancanza di assistenti sottopagate, dal calo della clientela popolare e dal carico di lavoro domestico e di cura non condiviso con i mariti.

Vanessa Maher
Tenere le fila.

Sarte, sartine e cambiamento sociale 1860-1960

Rosenberg & Sellier, pp. 391, euro 32

articolo pubblicato da il manifesto del 20 Aprile 2008

home