La mala vita


di Lea Melandri

Quando si chiude un ciclo temporale, è forte la tentazione di fare dei bilanci, tanto più se la fine di un anno coincide con quella di un secolo e di un millennio. La bontà della storia che ci si lascia alle spalle si misura tastando il polso al presente, verificandone lo stato di salute su un orizzonte che si è ormai allargato fino a comprendere tutte le aree abitate del pianeta, e ristretto tanto da penetrare nelle pieghe più nascoste della vita dei singoli.

Tra la seconda metà di dicembre 2000 e l'inizio di gennaio 2001, si sono susseguiti febbrilmente, quasi ogni giorno, rapporti, sondaggi, dibattiti, che interpellavano intorno allo stesso interrogativo -“come si vive?”- individui, generazioni, popoli e culture diverse, aspetti della vita sociale, dell'ambiente, dell'economia, della politica.
Si sono affiancati indifferentemente, sulle stesse pagine dei quotidiani, la conferenza Onu di Palermo sulla criminalità sovranazionale, il rapporto della Cia sui rischi destabilizzanti della globalizzazione, i dati dell'Unicef sui milioni di bambini che muoiono ogni anno per mancanza di cure, di cibo, adeguate condizioni igieniche, le inchieste dell'Istituto milanese Iard sulle inquietudini dei giovani, il rapporto dell'Istituto superiore della Sanità sull'isolamento dei bambini nelle realtà urbane, e il dibattito degli intellettuali sulle sorti dell'Occidente, minacciato dal suo stesso “benessere”, oltre che dalla pressione degli esclusi.
Visto attraverso questo profluvio eterogeneo di informazioni, il concetto di “malavita”, applicato comunemente al crimine organizzato, e oggi, nei paese europei, alla forte presenza di migranti clandestini, appare restrittivo e fuorviante. Se c'è, come dicono i sondaggi, un male radicato e diffuso, non è nell'eccezionalità che bisogna cercarlo, ma nel comune modo di vivere, nelle fonti molteplici di disagio e di rischio di cui è costellato: pericoli visibili e “flagelli silenziosi” che si fanno strada con l'aria che respiriamo, con i cibi, con l'eccesso di sollecitazioni esterne, e con i desideri controversi che provocano, con una mobilità che paralizza i pensieri, con una rete di comunicazione sempre più fitta, ma che sembra poter prescindere dalla presenza reale dell'altro. “Destabilizzante”, rispetto al sentire che abbiamo ereditato da una cultura secolare, è la perdita di confini, non solo tra popoli, ma tra uomo e natura, tra maschio e femmina, benessere e malessere, vita e morte.
La produzione di beni si svincola dalla mano che la dirige, diventando fine a se stessa, lo sviluppo divora le proprie risorse, la Ragione, orgoglio dell'umanesimo occidentale, mostra impietosamente le sue contraddizioni. “Tutti i giganteschi problemi, con cui ha a che fare questo Occidente che tende a diventare mondo -scrive A.Asor Rosa (La Repubblica, 2 gennaio 2001) – nascono dalla radici originarie del suo più lontano sviluppo. Sono l'egoismo, prodotto dal benessere, il rifiuto della diversità, il ripiegamento nel proprio fortilizio, l'eccesso di beni, l'inesorabile consumazione delle fonti stesse del processo di sviluppo, l'aria, la luce, l'acqua, la terra di cui ci siamo impadroniti e che trattiamo come beni di conquista.” L'uomo “laico”, che ha provato per un millennio a “fare da sé”, senza dei e senza dio, sembra accorgersi solo ora di averli sostituiti con una “volontà di potenza” che mira a liberarsi da ogni limite biologico, con esiti visibilmente distruttivi. “Allontanando il termine, l'umanità ostenta un'assenza di fine: quale vita prolungare? A quale scopo?” , scrive Jean-Luc Nancy nel libro L'intruso (Cronopio, 2000). Nel suo percorso storico la civiltà ha fatto crescere insieme “mezzi di vita e di morte”. Le manipolazioni della natura e dei corpi, di cui si è resa tecnicamente capace, consentono sopravvivenze miracolose ma rischiano di trasformare gli uomini in “androidi” o in “morti-viventi”. Allontanandosi dal fondamento naturale della vita, anche il tempo biologico si altera; si eclissano non a caso le due età più vicine al corpo e ai suoi bisogni, l'infanzia e la vecchiaia: i bambini sono sempre più soli in un mondo di adulti, troppo presenti e troppo assenti; gli anziani, resi inutili e insignificanti dall'enfasi produttiva dominante, finiscono relegati ai margini della collettività, in attesa della morte. L' “infanzia impossibile” è quella del bambino “che interagisce con un mondo virtuale perdendo ogni contatto con la realtà; quella di chi viene subissato di beni materiali, ma si trova poi solo con mostri inidentificati. Aumentano i bambini troppo grossi e troppo magri; aumentano le allergie e gli episodi asmatici; aumentano i disturbi del linguaggio e del comportamento; aumentano le sindromi depressive e le patologie dell'apprendimento.” (Il bambino ecologico, Stampa alternativa, 2001). Ma, tornando ai sondaggi, anche l'età “adulta”, assorbita da ritmi e modi di lavorare in continua trasformazione, non sembra godere di migliore salute. Anche se l'isolamento e l'abbandono colpiscono soprattutto gli anziani, circa la metà degli italiani “ha paura di vivere da solo”, ragione per cui molti giovani preferiscono restare a lungo in famiglia, “attaccati alla sicurezza che danno mamma e papà, insoddisfatti dell'aspetto fisico, sensibili ad un gruppo umano sempre più ristretto”
(Il Venerdi di Repubblica, 15 dicembre 2000).
Il “mal vivere”, quando si parla delle aree diseredate del mondo, prende nomi e figure precise: la povertà, la denutrizione, lo sfruttamento, la violenza, le catastrofi ambientali, le epidemie, le guerre, i campi profughi, il debito pubblico. Riportato nei paesi ricchi, diventa una vaga, generica “insicurezza”, a cui si reagisce o pensandosi perennemente minacciati da un prossimo ostile, o diventando a propria volta aggressori. Ma quando si abbassano le difese immunitarie, se è vero che si è più esposti all'attacco che viene da fuori, come nelle sindromi influenzali, diventa anche evidente che i nemici più pericolosi sono all'interno: “i vecchi virus, gli intrusi di sempre” (Nancy). Dietro il paravento dell'allarmismo, delle depressioni, dell'arroganza ostentata si può pensare allora che si celino, al contrario, le certezze che cominciano a farsi strada nella coscienza dei cittadini “benestanti” dell'Occidente. Fra queste, non ultima, quella dell'individuo che si riconosce, nella sua singolarità, parte dell'unica famiglia umana, sospeso tra lo smarrimento della solitudine e la prospettiva di nuove forme di convivenza, tra il desiderio di un'autoaffermazione senza limiti e la solidarietà. In questo arduo passaggio, dagli esiti incerti, che vede insieme l'emergere del singolo e la nascita di una socialità allargata, la libertà sembra per ora convivere paradossalmente sia con i vincoli più arcaici di appartenenza che con le forme più moderne e sofisticate di controllo sociale, identificazione, reperibilità permanente.