“Il personale è politico”: partire da sé perché l’aborto non sia più un tabù

 di Jones Mannino


Frida Khalo

Aborto e maternità sono sempre state due facce della stessa medaglia; le donne hanno sempre abortito spontaneamente o volontariamente. Invece, le due cose vengono separate non solo nel dibattito politico ma anche nel quotidiano. Con l’aborto ho avuto a che fare due volte nel corso della mia vita attraverso l’esperienza dolorosa di due care amiche. In entrambi i casi, l’aborto, o meglio, l’interruzione volontaria di gravidanza, è stato il frutto di una scelta meditata e sofferta. Entrambe convivevano da tempo con i rispettivi compagni, i quali hanno partecipato e sofferto di questa scelta e sono rimasti accanto alle loro compagne, che non li hanno allontanati né durante, né dopo questa esperienza. In che modo la cosa mi ha coinvolto?

Nel primo caso, di qualche anno precedente al secondo, non ho mai saputo dalla mia amica - che chiamerò Anna - che aveva deciso di abortire. E’ stato il suo compagno a venire da me per raccontarmi quello che stava succedendo, pregandomi di starle vicino, ma confessandomi che lei mai e poi mai avrebbe voluto che io lo venissi a sapere. E così io le stetti vicino, con l’assiduità, l’affetto e le coccole, ma rispettando la consegna del silenzio. Non ho mai saputo con esattezza quando è successo, come e dove. E lei ha manifestato la sua sofferenza sotto forma di momenti di depressione o attacchi di panico che continua a portarsi appresso.

L’altra vicenda è avvenuta qualche anno dopo. Paola (anche questo un nome di fantasia) non ha cercato di nascondere la cosa, parlandone tranquillamente con le persone a lei care, tra le quali io. A quel tempo abitavamo insieme e con altre persone. La mattina dell’intervento ero preoccupato, molto dispiaciuto per lei, e anche per lui, il suo compagno, perché so che desideravano averlo il figlio, ma non nella condizione di precarietà in cui si trovavano. Quella stessa mattina passa a trovarmi a casa Anna, e vedendomi scosso e preoccupato, mi chiede come mai fossi in quello stato. Io le racconto quello che sta succedendo e improvvisamente mi trovo aggredito per il solo fatto di parlarne, e ammonito perché un aborto è qualcosa di cui non bisogna parlare, un fatto personale, privato. E quando le spiego che se ne parlavo era anche perché ne avevamo sempre parlato dentro casa e che non c’era nulla da nascondere, lei reagisce stupefatta e stizzita, chiedendosi come fosse possibile che Paola avesse potuto parlarne con altri e scoppiando in lacrime. In quel momento era come se i legami, ancorché costruiti da anni, l’affetto, la possibilità di condividere, di darsi sostegno e conforto a vicenda, non esistessero più, non potessero proprio esistere di fronte a un fatto del genere. Io ho rifiutato la colpa e il giudizio di Anna su di me e sul modo in cui l’altra ragazza aveva scelto di affrontare la cosa e ho manifestato il mio stupore per il fatto di essere stato aggredito in un momento in cui sceglievo di condividere il mio disagio. Mi fermo qui col racconto per ragionare su un punto. In entrambe le storie stiamo parlando di giovani donne, per altro mie coetanee, laureate e con una coscienza politica orientata a sinistra che hanno sempre vissuto con grande libertà le loro storie d’amore o di sesso.

E al punto ci arrivo parlando delle esperienze di altre donne, amiche o parenti, che hanno fatto figli in questi anni, o che li hanno persi. Spesso è successo che la gravidanza è stata nascosta per mesi, spesso fino a dopo l’amniocentesi, se non oltre, per evitare di dover dare spiegazioni nel caso in cui qualcosa vada storto. Insomma, la maternità non è, di questi tempi, un fatto libero e manifesto nella sua interezza (interezza in cui rientrano gli eventi abortivi, spontanei o volontari). E’ considerata degna di essere manifesta quando si è quasi sicuri che la missione storico sociale del corpo femminile verrà portata a compimento. Se c’è qualche intoppo o difficoltà, la santa alleanza di perbenismo borghese e familismo amorale di stampo cattolico provvederanno a censurare quello che deve essere nascosto alla vista di tutti, che potranno così far finta di nulla, e il dolore ognuna dovrà ricacciarselo in fondo al cuore e conviverci, con il suo portato di depressioni, sensi di colpa e manifestazioni psicosomatiche di ogni sorta, compromettendo la propria salute morale e fisica.

Insomma, io credo che è su questo che oggi rischiamo tutti e tutte di non resistere all’assalto di una classe politica subalterna alle gerarchie cattoliche e al neofondamentalismo che queste stanno spargendo a macchia d’olio nel corpo sociale, non senza contagiare ipocriti e opportunisti anche a sinistra. Credo che la battaglia per la legge 194 e quella per impedirne l’abolizione siano state vinte mettendo in gioco i corpi, le relazioni, le storie, i vissuti, le esperienze, i saperi e le culture politiche, facendole circolare, incontrare e scontrare, impedendo che la tragedia personale di centinaia di migliaia di donne rimanesse un fatto privato e isolato, e quindi politicamente inerte. Oggi a me sembra che giochiamo in difesa, se non battiamo in ritirata. Non servirà a nulla porsi sul terreno della difesa dei Diritti delle Donne, e dei Principi dell’Autodeterminazione in modo astratto.

L’idea che “Il personale è politico”, il partire da sé, la coscienza del limite, un’etica della relazione e una pratica che agisce il conflitto dentro le relazioni, senza annientare l’altro/a e senza azzerare il conflitto: questi sono gli strumenti che il pensiero e la pratica del movimento delle donne e del movimento nonviolento hanno saputo elaborare e metterci a disposizione. Sarebbe ora di cominciare ad utilizzarli davvero, nelle nostre relazioni e in tutti i luoghi del nostro impegno politico.

questo articolo è apparso su Liberazione del 13 gennaio 2006