Sandra Burchi, Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico

Barbara Mapelli

 

 

La narrazione e l’interpretazione di dieci storie esemplari offrono i contenuti principali di questo testo: storie di donne lavoratrici tra i 29 e i 49 anni, appartenenti a quella lunga generazione di sperimentatrici prima della flessibilità e poi della precarietà come condizione di quasi normalità; donne con titoli di studio elevati e percorsi professionali di contenuto prevalentemente cognitivo o imprenditivo. Donne fortemente orientate al lavoro e in grado non solo di affrontare le nuove complessità professionali ma di rendersi protagoniste di percorsi innovativi, di scegliere – come osserva l’autrice del testo – una marginalità voluta, il lavoro svolto a casa, un ritorno al luogo del privato imprevedibile solo alcuni anni fa, se si pensa a quanto è costato alle donne, in termini di fatiche e conquiste, di pensiero e riflessione su di sé e collettiva l’uscita dalle mura domestiche, con tutto il valore concreto e simbolico per il nostro sesso di ore e giornate passate fuori, a scuola, all’università, sul lavoro. Eppure queste donne, con i loro racconti non paiono esprimere il sentimento che questo ritorno a casa significhi una sconfitta: si mostrano piuttosto concretamente impegnate nella ricerca di soluzioni rispetto a quanto la realtà del presente offre. Né rimpianti né lamenti, ma percorsi di vita e lavoro che creano nuove connessioni tra i luoghi della domesticità e della professione, tra questi e lo spazio virtuale del web.

E più volte, nel procedere della lettura, ho percepito questo cambio di registro che mi appare come una reale possibilità di cambiamento, forse l’unica possibile: nessuna recriminazione o nostalgia rispetto a un passato che non c’è più, ma l’intenzione di vivere il cambiamento e nel cambiamento, modulandolo e modificandolo secondo le proprie esigenze e le proprie capacità di innovazione e creatività.

Queste storie di donne, che sono il corpo vivo di tutto il testo, si concentrano innanzitutto sul tema dello spazio, la casa appunto, che si trasforma, anzi viene trasformata in un luogo terzo, né solo casa né solo lavoro, un luogo di sperimentazione per sé, ma che può divenire un percorso percorribile anche da altre. Un luogo di eccedenza rispetto alla domesticità, ma anche, io credo, rispetto al tradizionale modo di interpretare il lavoro, quel lavoro che non ha più, non potrà più avere le forme cui eravamo abituate e abituati.

La scelta o l’obbligo di abitare la casa con la propria professione rompe i confini tra pubblico e privato, tra lavoro di produzione e lavoro di riproduzione, e si tratta di un processo ambivalente, che riserva luci e ombre, ma di cui le protagoniste delle storie paiono consapevoli. Credo d’altronde che l’ambivalenza sia il registro da adottare nel contemporaneo, non vivendola come una resa, ma, quando ci si riesca, come una virtù, che le donne hanno appreso a praticare per non rinunciare a quella pluralità di percorsi che ha sempre caratterizzato le nostre vite. Ora questa ambivalenza si rende visibile ancor più in questi spazi domestici nei quali un computer, meglio se portatile, quaderni di appunti, libri, strategicamente collocati in uno o più luoghi della casa, o addirittura resi mobili secondo le diverse esigenze di altri abitanti o le diverse ore della giornata, indicano la presenza del lavoro, forse di quel lavorare diversamente (Laura Balbo) delle donne, rispetto al quale, ci chiediamo insieme all’autrice, se anche gli uomini, coloro che vivono in quelle case, si stanno misurando.

Questo nomadismo casalingo – così lo definisce un’intervistata – chiede una microprogettazione quotidiana, ha bisogno di crearsi un ambiente, una scenografia anche semplice ed essenziale, che indica però una rottura precisa con quanto lo spazio casalingo ha sempre significato per una donna. E si inserisce a questo punto un tema centrale, quello del riconoscimento: se lo spazio della casa diviene spazio ambivalente, come tale va riconosciuto e riconosciuto, inannzitutto dalla donna stessa, il lavoro professionale che vi si svolge e il suo valore. Soltanto in questo caso l’ambivalenza rappresenta non solo l’adeguarsi a una necessità per salvaguardare la molteplicità degli impegni, ma un’opportunità che dà senso alla pluralità esistenziale, dà corpo e consistenza alla sua potenziale ricchezza.

Le riflessioni raccolte nelle interviste si spostano poi sul tema – tra i più pensati dal movimento delle donne – del tempo. Le questioni sono molte e riguardano le diverse strategie adottate nella difficoltà di trovare a casa un tempo lineare, continuo, per il proprio lavoro. Ma qui soccorre la nostra esperienza, le competenze che abbiamo sviluppato nel tempo e nei vissuti di pluralità e intrecci biografici. Ma soccorrono anche le nuove esperienze delle generazioni più giovani – le donne intervistate – che sanno miscelare razionalità e ritualità, porsi dei limiti, inventarsi orari, pause, momenti di lavoro che sappiano preservarsi dall’invadenza di altre mansioni casalinghe e relazionali. Mi è parso particolarmente interessante il tema della ritualità, probabilmente perché lo vivo io stessa nel mio lavoro a casa. Iniziare la giornata vestendosi come se si dovesse uscire, bere un caffè, ripetere gesti che dvengono abituali e sanno segnare alcune divisioni nel tempo e nella giornata crea senso di continuità, rassicura, offre la sensazione, reale, di sequenze precise, scandite, all’interno delle quali ci si concentra sul proprio lavoro, respingendo le lusinghe e le illusioni di poter fare tutto, insieme e sempre.

Ma le ritualità quotidiane possono assumere anche un altro significato: possono ricordare alle donne che lavorano in casa che hanno un corpo. Allora vestirsi prima di iniziare, concedere attenzione al proprio corpo può salvare da quella assenza di corporeità che viene indotta dall’uso del computer e che determina anche la (minor) qualità delle relazioni che si intrattengono attaverso questo mezzo. Le intervistate parlano di vuoto emotivo, la comunicazione non in presenza può informare, raccontare a parole, ma non è in grado di creare empatia, condivisione o anche semplicemente comprensione degli stati d’animo. Si tratta di cose note, ma che appaiono particolarmente importanti per queste donne che vivono il tempo delle relazioni professionali prevalentemente come tempo di rapporti a distanza. Ma, osserva Sandra Burchi, il tempo degli altri, in famiglia o nei rapporti di lavoro, può dare la misura, un registro di priorità, che rende possibile, o necessario, dare spazio ai contatti diretti, anche nel lavoro, ricordandosi così del proprio corpo e di quello degli altri, imparando a interrompere, a salvaguardarsi dalla fascinazione di un lavoro che fluisce e sembra possa proseguire ininterrotto.

Con le loro strategie, frutto di esperienze e riflessioni, queste donne sanno di collocarsi in una frattura del tempo, in un cambiamento radicale del lavoro e lo fanno, come già accennavo, senza nostalgie per un passato che non c’è più, mostrano di saper vivere positivamente il cambiamento, senza sentimenti di rassegnazione, ma, piuttosto, infastidite da quel che resta ancora, e le vincola a un passato fatto di burocrazie, gerarchie e cooptazioni: la frattura allora diviene un frattempo faticoso da vivere, con la sensazione di muoversi ancora in un binario parallelo, che scorre a fianco di ciò che non sa mutare, che si perpetua in un contesto di norme e regole che soffocano il presente. Non elaborano, queste donne, un lutto e una perdita rispetto ai residui del passato, piuttosto vivono un sentimento di scontento, perché non si sentono riconosciute adeguatamente per quello che fanno e si sentono penalizzate dalle contraddizioni di un sistema che chiede loro responsabilità e innovazioni, ma non sa offrire supporto e occasioni di sviluppo a nuove autonomie e capacità.
Queste donne non parlano di diritti, questa parola, osserva l’autrice, appare molto poco nelle loro testimonianze, si sentono ormai lontane da un insieme di valori che definisce il lavoro un diritto, non ne comprendono neppure il significato. Sono e si sentono impegnate a vivere il presente, pur con i suoi contrasti, che riordinano nelle loro vite e nella ricerca di equilibri sostenibili: una ricerca individuale che può divenire immagine e testimonianza per percorsi più collettivi. Vite che si collocano consapevolmente in uno spazio che appare ancora marginale, anche perché si sottrae il più possibile a norme e regole considerate ormai desuete. Marginale è il termine che Sandra Burchi usa nelle sue conclusioni, margine come luogo meno invaso da costrizioni, ma che io interpreto, con l’autrice, come modo reale e positivo di vivere il cambiamento, senza rimpianti o sterili indignazioni, ma impersonando con le proprie scelte individuali – ed esemplari – il radicale cambio di scena, il nuovo palcoscenico con le possibilità, opportunità, fatiche, che offre.


Sandra Burchi, Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico,
Franco Angeli, Milano 2014, pp. 159, 19,55 euro

 

2-01-2015

home