Maria Rosa Cutrufelli
I bambini della ginestra

Barbara Mapelli


Il libro è bellissimo e credo inevitabile tradirlo con letture necessariamente parziali: si tradiscono sempre le intenzioni di un’autrice o un autore quando si parli di un suo testo. D’altra parte, quando si pubblica un libro, lo si rende, appunto, pubblico, una sorta di proprietà comune e le diverse letture lo trasformano, talvolta possono fargli anche del bene, chiarire addirittura a chi lo ha scritto qualcosa che di sé e della sua scrittura ancora non sapeva.
E’, dovrebbe essere, una sorta di patto tra lettore e lettrice autore e autrice. L’ho già fatto questo discorso e ho tradito serenamente alcuni libri, ma in particolare quelli che mi sono piaciuti, che hanno ‘meritato’ il mio tradimento, hanno catturato la mia attenzione, il sentire e il pensare e la trasformazione – per quanto possibile – ha agito rendendo il libro anche cosa mia.

Dunque, la prima emozione che il libro di Maria Rosa mi ha suscitato è legata alla sua sicilianità. L’autrice è siciliana, io non lo sono di nascita ma, come ebbe a dire il sindaco della piccola città in cui ho preso casa, sono una siciliana di elezione, ho scelto la Sicilia e sono in attesa che la Sicilia mi accetti e questo non è detto che avvenga, certamente per mancanza mia e per una suscettibilità, preziosità che appartengono a questa terra e a chi vi abita e vi è nato o nata.

La sicilianità è in tutto il libro, non solo perché tratta di vicende siciliane, perché protagonisti e protagoniste sono siciliani: la Sicilia è trama e sangue di tutto il testo, vi scorre ovunque, in ogni pagina e riga, anche quando si svolge altrove. Ma soprattutto quando è lì a Piana, o a Palermo o a Sciacca che si svolge l’azione.
Dai canaloni arrivava un sentore di piante selvatiche, di pietra calda e sterco asciutto. Ancora non era il soffio abbruciante dell’estate, ma qualcosa di più sottile. Intimo, quasi. Qualcosa di simile a una smania. A una voglia di correre e correre fino a restare senza fiato, per poi buttarsi giù nell’erba a sfidare la luminosità del cielo (p.25).
La bellissima e tragica Sicilia, eccessiva, nel senso che sempre si ha l’impresione che ci ecceda, che non si possa descriverla, ma sia lei che ferma la mano, inadeguata. Maria Rosa la racconta in tanti modi, con sguardi che sono spesso di lato, non frontali o, se lo sono, colgono la complessità senza commentarla, narrandola, l’unica possibilità, io credo, per dire quello che è in qualche modo indicibile.

Succede a Palermo. Esci dalla Cattedrale, fai duecento metri e sei fra le baracche del cortile Cascino, davanti a pareti nere di scorpioni. Oppure esci dal Teatro Massimo, di nuovo fai duecento metri, svolti e ti ritrovi fra bambini nudi e vecchi chiusi dietro camcelletti a sbarre (p.168).

Gli odori

L’odore che hanno sulle braccia le conserviere di Sciacca – le donne che ‘scapuzzano le alici’ se vogliamo usare il linguaggio dello zio. E cioè le operaie che tolgono le teste al pesce prima di metterlo in scatola. Sulla corriera, quando c’erano loro, era come sguazzare dntro una salamoia (pp.85,6).

Conversazioni in Sicilia

Nei giorni feriali imparavo il mestiere nella bottega dello zio, che era più fequentata di un circolo di conversazione, fra parenti, amici e compari che si fermavano a ragionare di questo e di quest’altro. Venivano apposta. Si accomodavano sopra un paio di vecchie sedie sfondate o sui gradini di una scaletta che finiva nel soppalco adibito a magazzino e, dall’alto di quella tribuna, affrontavano l’universo mondo. Non si trattava di un parracinio , d’un parlare inutile, bensì di un alto esercizio di retorica (p.129-30)

La parlata siciliana

La tua parlata siciliana. L’accento, il ritmo, le frasi che dalla lingua regolare scivolavano nel dialetto, l’uso costante del passato remoto e lo sprezzo assoluto per il passato prossimo, che è  un tempo bastardo…(p.250)

La vicenda di cui tratta il libro è nota: si tratta della strage del Portello delle Ginestre e successive, scandalose vicende di assassinii, avvelenamenti e processi altrettanto avvelenati e scandalosi.
Importante è quindi sottilineare e cogliere le scelte del registro narrativo, quelle che narrano vicende di cui si sa e molto si è parlato, ma lo fanno attraverso forme, sguardi, parole differenti.
Il racconto si snoda in soggettiva, sono fin dall’inizio e per parte del testo  sguardi infantili quelli che descrivono gli eventi. Una bambina e un bambino, nel mezzo di una tragedia, con tutta la forza, la fragilità, la difficoltà di comprendere e ricostruire vicende di adulti.
C’è un’immagine che non sopporto, mi dà dolore per questo è ancora viva dentro di me…Ed è l’immagine della bambina che ero, tesa nello sforzo disperato di capire e di farsi capire. Mi affannavo, ce la mettevo tutta, ma l’impresa, inesorabilmente, rimaneva fuori dalla mia portata…e mentre inghiottivo la mia delusione, mi resi conto che i bambini sono forti, molto forti nella loro debolezza (p.53,55)
Aggressività. Ansia. Un persistente senso di paura e d’impotenza. Ero proprio una bambina terremotata che continuava a sentir tremare la terra dentro la sua pancia (p.143)
Questa che parla è Enza, a lei fa eco e intona il proprio canto la storia, Il dolore e la rabbia di Lillo che ha perso a Portella il padre. Ecco come lo descrive lei, Enza
Per bagaglio avevi la cartella della scuola e uno zaino militare, che tuo padre conservava dalla guerra. Era pieno di ganci, cerniere, tasche profonde, capaci di nascondere un intero armamento. Anche la tua faccia aveva un’aria armata, per così dire: in altri termini, non davi affatto l’idea di uno che subisce. Di una vittima arresa. Al contrario. Lo vidi, lo capii dalla torsione del collo quando sbirciasti all’insù, verso le nostre finestre, liberando la fronte dai capelli con uno scatto duro (pp.58,9)
Ma così si racconta Lillo.
Mi sentivo debole. Troppo ragazzino per quel passato ingombrante che tornava ad aggredirmi come una malattia, una forma di malaria ricorrente da cui era impossibile difendersi (p.85)

La narrazione si svolge negli anni e nella crescita e diversi destini della bambina e del bambino che divengono ragazzi, adulti.
Le loro parole raccontano le vicende e le emozioni, ma sono anche i luoghi, i gesti di altri personaggi, che raccontano storie. E la narrazione sceglie spesso sguardi di sbieco, particolari che rendono eloquente la descrizione della tragicità. E’ spesso il sole, il sole violento di Sicilia, che si metamorfizza, diviene metafora del dolore e vi partecipa, con immagini che si incidono  nel sentire di chi legge.
A un certo punto mi attraversò un brivido di freddo e d’istinto alzai gli occhi per cercare il sole. Era là sul muro in rovina. Aveva il colore di un dente vecchio che non morde più (p.50)
Davanti avevo una strada vuota – era inverno – e alla mia destra un sole gonfio, arroventato, che però non scaldava (p.188).
La morte stessa è descritta attraverso la visione di particolari, che non attutiscono, anzi aumentano il colore della tragicità.
C’era una treccia bruna, lustra, spessa, che pendeva giù dal pianale di un carro e, a ogni giro di ruota, ondeggiava come la coda di un mulo che scaccia le mosche. Eppoi una camicia strappata. Un calcagno tinto di sangue. Un pane morso e abbandonato sull’erba…(pp.30,1)
E il bandito, Gaspare Pisciotta, emerge nella sua banalità, volgarità del male in alcuni momenti di narrazione che coglie particolari, gesti minori.
Al processo si presenta elegante, come gli altri accusati.
Un doppiopetto blu che un tantinello doveva preoccuparlo se è vero che entrando nella gabbia, prima di sedersi, aveva steso sulla panca un fazzoletto per paura di sporcarsi i pantaloni (p.133)
Nel momento della lettura della sentenza, vi sono bagliori, momenti di luce che si accendono improvvisi nell’aula e Piono rispondersi tra banditi e giudici.
Alle lampade normali erano stati aggiunti dei riflettori immensi, fatti venire apposta da Cinecittà, e dentro quei fari i capelli impomatati di Pisciotta brillavano lucidi, perfetti. Pure gli occhiali del presidente della Corte, quando li inforcò per leggere, mandarono un lampo. Che si ripetè quando li tolse e li mise di nuovo (p.138)
Pisciotta viene avvelenato e la madre e la sorella si recano all’Ucciardone
“Me l’ammazzaro!” gridò da sotto lo scialle col tono acuto del lamento funebre, che taglia le viscere. E continuando a gridare chiese perché, ma perché le guardie non le avevano permesso di prendere le cose di Gaspare…
Lì vicino, su un avanzo di panchina siede un vecchio che continua a ripetere la stessa frase.
“Vero c’è il mondo?” borbottava il vecchio fra sé e sé. “Non ci credo che c’è il mondo” Dopodiche si interruppe per grattarsi il collo (p.177)

Difficile ‘tradire’ in questi casi, ma solo un momento di sospensione, ammirato, perché l’autrice riesce a DIRE il tragico, non lo descrive, lo pronuncia più che denunciarlo. Ce ne fa partecipi inevitabilmente, ma più che con un sentimento di nobile indignazione rispetto all’ingiustizia, anche di questo avvelenamento politico,  piuttosto con la condivisione di destini, che più o meno calati nella sofferenza, sono noi, ci riguardano, riguardano la nostra condizione. Come la morte, la perdita e la rabbia, il dolore impronunciabile, cui la stessa natura e le cose fanno da sfondo partecipe.
Sopra di noi, il cielo si manteneva di un bianco compatto, uniforme, senza varchi (p.177).

La storia è nota, dicevo, ma viene rinarrata a due e più voci, crea così l’autrice la coralità sinfonica delle storie che compongono la storia ( e credo sia un’impresa di scrittura molto complessa costruire l’equilibrio di questa coralità e mantenerne, nonostante tutto, la leggerezza). Vi è una pluralità di racconti, di personaggi, che appaiono rapidi, solo in poche righe, oppure si ripresentano e appaiono come coprotagonisti, sono come fili colorati di un tappeto ben tessuto, in cui la pluralità dei colori non si infeltrisce e non si confonde ma esalta ogni unicità e presenza.
Anche la ricerca della verità che urge nella vita di Lillo, diviene una composizione paziente, di briciole, perché di briciole è composta la vita degli uomini (232). E Lillo sceglie di divenire storico, raccoglitore appunto, paziente, di briciole.

Nel tempo matura l’accettazione del dolore, che non si cancella ma può indicare una strada, non facile e non gloriosa, che porta però alla consapevolezza – ed è Enza che parla – che lei può amare solo chi ha condiviso e conosciuto questo dolore. Di nuovo l’immagine del sole accompagna e diviene metafora di questo percorso sofferente.
Davanti avevo una strada vuota – era inverno – e alla mia destra un sole gonfio, arroventato, che però non scaldava… (comprendevo di aver bisogno) di qualcuno aggravato come me, qualcuno morso fin dentro le viscere. Come me. E inaspettatamente avvertii il dolore della tua assenza (p.188,9) … Perché facevamo parte della stesa storia, perché avevamo nel cuore la stessa tirannia… Perché eravamo e saremmo stati sempre i bambini della Ginestra (p.201).

E’ il coraggio, dicevo, non glorioso, non temerario, di riprendere a vivere, di accettare la quotidianità e la sofferenza e le ingiustizie che porta con sé, il coraggio di combatterle raccontandole come storie collettive ma composte di tante soggettività, di tanti dolori singoli e di donne e uomini che possono compiere anche piccoli gesti eroici e sanno – come i due protagonisti – re-imparare il proprio stare nel mondo e re-imparare l’amore. Raccontarsi non elude la sofferenza, non la evita, anzi in qualche modo la va a cercare, la stana e la narra, come storia propria, come trama della propria esistenza, che l’ha resa qual è e dunque anche l’incontro con l’amore, la sua costruzione negli anni e con la pazienza che richiede, si compone attraverso la conoscenza del dolore.

 

 

Maria Rosa Cutrufelli
I bambini della ginestra
Frassinelli, 2012, € 18,50,
pp. 288

14-11-2012

 

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